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Le donne a Riyadh, gli uomini a Torino. Cosa ci dicono le Finals sul tennis mondiale
Ieri 11-11-25, 16:17
Due arene, stessa cifra: 15,5 milioni di dollari di montepremi alle WTA Finals di Riyadh e alle ATP Finals di Torino. In superficie è la fotografia perfetta: il torneo più importante del tennis femminile e quello del maschile, fuori dagli Slam, finalmente allineati. Ma dietro la simmetria dei numeri si muovono modelli di potere molto diversi. A Riyadh la WTA incassa il secondo anno dell’accordo triennale con la Saudi Tennis Federation. Montepremi record, fino a 5,235 milioni di dollari per una campionessa imbattuta, oltre un milione per il doppio: cifre mai viste nello sport femminile. È la risposta a anni di precarietà: Shenzhen saltata, Covid, il caso Peng Shuai, sedi improvvisate. L’argomento ufficiale è che per crescere servono nuovi mercati e partner solidi. Il non detto: la vetrina più ricca del tennis femminile diventa un ingranaggio del softpower saudita, mentre restano sul tavolo le criticità sui diritti e le libertà delle donne. Le critiche di Navratilova ed Evert non hanno fermato l’intesa; le giocatrici si dividono tra chi parla di “opportunità di cambiamento” e chi vive il disagio di essere testimonial forzata di una narrazione patinata. Le tribune a macchia di leopardo e il pubblico da costruire mostrano che il denaro, da solo, non basta a legittimare un’operazione. A Torino il quadro è opposto. Stesso montepremi, 5,071 milioni al vincitore imbattuto, ma radici diverse. L’Inalpi Arena piena, la continuità dopo Londra, il sostegno di Nitto e delle istituzioni italiane, l’effetto Sinner che rende il torneo un asset nazionale. Il governo ha impegnato circa 100 milioni di dollari per blindare le Finals fino al 2030: investimento pubblico in un prodotto maturo, percepito come garanzia di ritorno economico e politico. Qui il tennis non compra una legittimazione, la consolida. La dipendenza c’è, ma è “domestica”: sponsorizzazioni, turismo, brand paese. Sullo sfondo, il progetto Tennis Ventures punta a unire i diritti commerciali di ATP e WTA entro il 2027: un’unica piattaforma per media, dati, sponsor. È il passaggio decisivo. Se uomini e donne vendono insieme il prodotto, chi porta più peso al tavolo negoziale? Il tennis femminile che, per chiudere i conti, ha accettato Riyadh? O il tennis maschile che, dopo aver capitalizzato su Torino, ha già aperto alla nascita di un nuovo Masters 1000 in Arabia Saudita dal 2028, infilato in un calendario che i giocatori definiscono “insostenibile”? In entrambi i casi, i capitali sauditi smettono di essere eccezione e diventano infrastruttura. Il punto è che la parità non può ridursi a una riga in un comunicato sui montepremi. È anche la libertà di scegliere dove si gioca, con chi, a quali condizioni. Oggi l’immagine dice: stesso assegno, stessa dignità. La sostanza racconta altro: il circuito femminile compra sicurezza esponendosi alla contestazione etica più forte; quello maschile difende un modello europeo di successo ma integra, un pezzo alla volta, gli stessi soldi che governano la partita dall’altra parte. In mezzo, le tensioni esplose con la Ptpa, guidata da Novak Djokovic, sul calendario e sulla distribuzione dei ricavi segnalano che la battaglia vera non è solo tra uomini e donne, ma tra chi genera il gioco e chi ne controlla il flusso economico. La fotografia delle Finals 2025 è elegante e ingannevole: mostra una parità raggiunta, nasconde che il prezzo di questa parità rischia di essere fissato da chi può comprare tutto, anche il racconto della giustizia nel tennis.
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