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Hannah Arendt e la centralità delle persone contro i totalitarismi
Oggi 02-12-25, 14:23
Quando nel 1951 uscì Le origini del totalitarismo, Hannah Arendt, pur ben inserita nei circoli intellettuali e dell’emigrazione ebraica a New York, era quasi sconosciuta al grande pubblico. La sua formazione era stata infatti eminentemente filosofica: aveva studiato con Husserl e Heidegger e si era laureata con Jaspers con una tesi su Sant’Agostino. L’avvento del nazismo aveva interrotto quella che si avviava ad essere una brillante carriera accademica nella sua Germania (era nata ad Hannover nel 1906). Rifugiatasi a Parigi, si imbarcò nel 1941 per gli Stati Uniti, che elesse da quel momento a sua patria ideale e reale. Non che ella lesinasse critiche al modello consumistico americano, al pari dei suoi amici Adorno e Marcuse con cui condivideva il destino dell’esilio. La critica però non l’accecava tanto da non farle prendere coscienza della differenza sostanziale fra gli ordinamenti liberaldemocratici e quelli che definì “totalitari”. Assimilare sotto la stessa categoria comunismo e nazionalsocialismo destò allora scandalo in un mondo intellettuale che guardava con occhio benevolo all’esperimento sovietico. Chi era costei da potersi permettere di equipare il “male assoluto” e “radicale” dei lager con la ricerca idilliaca del “Sol dell’avvenire”? Arendt aveva capito che il totalitarismo era fenomeno del tutto nuovo, diverso dai vecchi autoritarismi: strettamente legato all’avvento delle masse sulla scena del potere, esso tendeva a conquistare le anime e i cuori dei sudditi e non semplicemente a dominare i loro corpi. Il totalitarismo non era la patologia sopraggiunta in un organismo sano, ma la degenerazione possibile e sempre dietro l’angolo della stessa democrazia, soprattutto quando essa dimentica l’elemento liberale che deve temperare e incanalare la spinta ugualitaria. Esso, inoltre, era, per Arendt, l’esito finale della metafisica, della volontà di ridurre il molteplice all’uno che segna tutta la storia occidentale. È per questo che ella preferiva definirsi una teorica della politica e non una filosofa: il termine filosofia era troppo compromesso perché nella sua storia c’è quella idea di piegare il reale all’idea (ideocrazia) che si ritrova nella mentalità totalitaria. Arendt si fece così teorica del pluralismo, ponendo come suo punto di riferimento un individuo plurale che non è propriamente quello della tradizione liberale in quanto lacerato al suo stesso interno da forze e pulsioni contrapposte che rendono tragica la condizione umana (Arendt non parla mai di “natura umana”). Mobilitazione continua delle masse, rivoluzione permanente, riduzione dell’avversario politico a nemico ed essere moralmente inferiore o addirittura subumano, utilizzo su vasta scala dei campi di sterminio o di “rieducazione”: sono questi i tratti comuni a nazismo e comunismo, forgiatisi inseme in quella temperie primo novecentesca in cui erano montati, a destra come a sinistra, l’antisemitismo e la critica della democrazia parlamentare. Sempre in un’ottica occidentalista, potremmo dire, Arendt mostrò poi, in Sulla rivoluzione (1963), la sostanziale differenza fra quella americana, volta ad affermare la libertà individuale, e quella francese, che tendeva a cambiare l’uomo stesso e a renderlo un angelo (ma, come è risaputo la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni). Per Arendt i moderni hanno occultato il concetto classico di azione ed hanno concepito la politica sul modello dell’opera, come fabbricazione (Vita activa, 1958). La politica vera, quella che i greci praticavano nell’agorà, non trova però senso in un fine esterno, ma in sé stessa, come attività propriamente umana in quanto basata sul discorso, sullo stare insieme ragionando, sulla messa a confronto della pluralità delle idee e delle visioni del mondo. Allergica ad ogni appartenenza, compresa quella ebraica, Arendt scrisse a Scholem nel 1963 che nella sua vita non aveva mai amato enti astratti come la classe operaia ma solo i suoi amici: «La sola specie d’amore che conosco e in cui credo è l’amore per le persone».
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