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Estero
"Vi racconto la vita in un bunker a Tel Aviv"
Ieri 14-06-25, 14:18
AGI - È una questione di minuti. Ufficialmente dieci, in realtà molti meno. Il tempo di uscire di casa e correre nel bunker e mentre ancora si chiude il portone blindato si cominciano a sentire le prime esplosioni. Prima in lontananza, poi più vicine, vicinissime, al punto di non distinguerle dai colpi di chi è stato sorpreso in strada dal bombardamento e bussa per chiedere riparo. Arrivato a Tel Aviv una settimana fa per un convegno Alla fine in questo rifugio ricavato nel piano interrato di una palazzina di quattro piani nel cuore di Tel Aviv si ritrovano in cinquanta: tutti gli abitanti del condominio e altre persone del quartiere o semplici passanti. C'è anche un soldato. "Ho in mente un'immagine che non mi abbandonerà mai", dice Stefano Zolli, 48 anni, maestro e dottorando in scienze dell'educazione, cittadino italiano e israeliano che la guerra ha sorpreso a Tel Aviv dove era arrivato appena una settimana fa per partecipare a un convegno. "Ai più piccoli si può far credere che sia un gioco, ma un bambino di 10 anni aveva già capito tutto" "Un bambino, giù nel rifugio, avrà avuto una decina d'anni, e aveva capito benissimo cosa stava succedendo, a differenza dei più piccoli ai quali si può far credere che sia tutto un gioco. Nel suo viso, nel suo sguardo, la paura era chiaramente leggibile". Abbiamo raggiunto Zolli nella casa in cui è ospite di un amico, uno psichiatra e psicanalista israeliano: le autorità hanno consigliato di non allontanarsi per poter raggiungere in fretta il rifugio e la Farnesina, con la quale è in contatto, gli ha ribadito che al momento è l'unica cosa da fare. Il rientro in Italia è difficile La prospettiva di rimpatriare gli italiani è, al momento, condizionata dalla chiusura dell'aeroporto Ben Gurion e dello spazio aereo giordano. "Ero arrivato da un paio d'ore a Tel Aviv da Gerusalemme e avevamo appena consumato la cena di Shabbat" racconta Zolli all'AGI, "quando è suonato il primo allarme. Ce n'era stato uno la notte tra giovedì e venerdì, immediatamente dopo l'attacco israeliano sulle installazioni iraniane, ma a dire la verità nessuno lo aveva preso troppo sul serio: in pochi erano andati nei rifugi e l'indomani le attività erano proseguite come sempre. Ma la notte scorsa è stato subito chiaro che le cose stavano diversamente". L'allarme, la fuga precipitosa "Eravamo in terrazza con la famiglia del mio ospite quando sui nostri cellulari è arrivato il pre-allarme. Ci siamo preparati cercando di non caricare di tensione i bambini e abbiamo fatto appena in tempo a scendere nel rifugio quando è arrivato l'allarme di prossimità e mentre stavamo chiudendo il portone blindato c'è stato un botto fortissimo e ha tremato tutto il rifugio. Si sentivano i rumori della contraerea e le esplosioni. Siamo rimasti nel rifugio per un po' più di un'ora - eravamo una cinquantina dai due ai novant'anni - e quando siamo usciti la prima cosa che ho visto è stata un grattacielo colpito in pieno da un missile. All'altezza del decimo piano era completamente sventrato". Ed è cominciata l'attesa, perché era evidente che quello era solo l'inizio. "Giravano delle voci" racconta Zolli, "che presto sarebbe arrivato un altro attacco. Ma per un po' tutto si è fermato e allora siamo rientrati in casa. La nostra palazzina non aveva subito danni, ma una finestra, proprio quella della stanza della bambina, era esplosa e il letto era pieno di vetri. Abbiamo fatto a turno, per star svegli e provare a riposare un po', poi arrivato il secondo attacco, intorno all'una e mezza di notte. Siamo corsi di nuovo nei rifugi e stavolta il margine di tempo tra il suono delle sirene e le prime esplosioni mi è sembrato ancora più breve, appena pochi minuti". Il clima in una manciata di ore è cambiato "Il governo lo ha detto e ora ne siamo tutti consapevoli: questi non sono attacchi sporadici, né scaramucce, ma una conflitto che andrà avanti per settimane" dice Zolli, "siamo in guerra con l'Iran e i loro attacchi non sono quelli rudimentali che prima del 7 ottobre venivano da Gaza. Quello che dobbiamo fare adesso è stare vicino al rifugio, attendere, non perdere la testa e tenere botta. Dopo il primo attacco la situazione era un po' confusa, ma qui c'è molta solidarietà, molta capacità di fare squadra e molta consapevolezza della necessità che ognuno adotti un ruolo. La paura si percepisce, ma il fattore di gruppo aiuta molto ad allentare le tensioni. Nel rifugio, sotto la pioggia di missili, non si parla di politica, ma è condivisa la speranza che si possa arrivare a un cambio di regime a Teheran e che la vittoria arriverà Israele. Ci si esalta per la precisione dell'attacco che Israele ha condotto, ma poi, quando arrivano i missili, arriva anche la paura. Sono tante emozioni contrastanti, tra l'angoscia e l'euforia". Al momento la speranza è quella di poter tornare presto in Italia "Ma, come immaginavo, non è possibile organizzare alcun rimpatrio perché l'aeroporto è chiuso: già la notte dell'attacco sono arrivati messaggi molto chiari sul fatto che sarebbe stato evacuato e non sarebbe stato agibile per un po' di giorni" dice Zolli "Qualcuno - non italiani - ha provato a uscire attraverso il corridoio che porta in Giordania, però la Farnesina sconsiglia, giustamente, di intraprendere quella strada. Ho massima fiducia nel nostro ministero degli Esteri e condivido quello che mi ha detto la persona con cui sono in contatto: in questo momento la cosa più prudente è attendere di costruire una strada di rientro sicura, perché è inutile farsi prendere dal panico".
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