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Il Foglio Quotidiano, meglio conosciuto come Il Foglio, è un quotidiano a diffusione nazionale fondato il 30 gennaio 1996 da Giuliano Ferrara, il quale ne fu direttore responsabile per 19 anni; dal 28 gennaio 2015 è diretto da Claudio Cerasa. Il giornale prende il nome dalla sua veste editoriale: esce infatti in un unico foglio, in formato lenzuolo. All''interno del foglio c''è un inserto, di solito in quattro pagine, con approfondimenti.


Politica
Ieri 23-03-23, 21:10
Giorgetti, comefossantani. Così il governo dice sì alla ratifica del Mes, ma anche no
L’insostenibile inconsistenza dell’essere Giancarlo Giorgetti. Atto settantaquattresimo, o giù di lì. E sì che, pure stavolta, c’era chi si attendeva parole di chiarezza, frasi anc... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti


Estero
Ieri 23-03-23, 20:41
L'Europa spiega a Meloni perché è finita la pacchia
Bruxelles. La luna di miele di Giorgia Meloni con l’Unione europea sta per finire. Dopo la fase iniziale di rassicurazioni e pragmatismo, ricambiati dai partner con aperture di credito e a... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti


Ieri 23-03-23, 20:26
La posizione senza senso del governo sul Mes
La posizione del governo sul Mes è sempre più indecifrabile. Se il problema è rimangiarsi il populismo dei tempi dell’opposizione, si tratta di un ostacolo tutto sommato superabile (come già saggia... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti


Economia e Finanza
Ieri 23-03-23, 19:47
Bruxelles accontenta la Germania sugli e-fuel dopo il 2035. L'Italia tagliata fuori
Giorgia Meloni è arrivata a Bruxelles sperando nel meglio. “La nostra è una tesi assolutamente di buon senso e confidiamo che possa passare anche per quello che riguarda i biocarburanti”, ha detto la premier prima del Consiglio europeo iniziato oggi. Ma neppure un’ora dopo, mentre lei incontrava gli altri capi di stato e di governo, il vicepresidente della Commissione europea ha spiegato che le uniche deroghe possibili per consentire la vendita di auto con motore a combustione oltre il 2035 riguarderanno i carburanti sintetici. Una modifica ulteriore significherebbe dover portare di nuovo il regolamento in Parlamento, che ha già licenziato il testo in via definitiva. “Qualsiasi altra cosa riaprirebbe l’intero accordo e non è quello che stiamo facendo”, ha detto Frans Timmermans, a margine del pre-vertice del Pse dove ha incontrato anche Elly Schlein. La Commissione vuole chiudere al più presto la partita del bando ai motori termici, un dossier che sembrava già cosa fatta fino al rinvio improvviso del voto ottenuto da Italia, Germania e uno sparuto gruppo di paesi a inizio marzo. Da quel momento però i tedeschi hanno iniziato una fitta trattativa che ha lasciato l’Italia ai margini. Olaf Scholz, che oggi ha incontrato Ursula von Der Leyen, ha detto che “tutto è sulla buona strada” per chiudere un accordo. E con il voto favorevole della Germania il regolamento ha i numeri per essere approvato in Consiglio: l’opposizione dell’Italia, che può contare sul sostegno di Polonia, Repubblica ceca e Bulgaria, non è sufficiente a incidere sulla maggioranza qualificata. In queste settimane, mentre il governo di Berlino si è assicurato di verificare a quali condizioni la Commissione avrebbe consentito la produzione di motori termici, quello italiano si è limitato a cantare vittoria per il rinvio del voto. L’unica presa di posizione è arrivata martedì, quando era ormai chiaro che la trattativa della Germania avrebbe lasciato fuori gli interessi italiani. Con una lettera alla Commissione europea, i ministri Matteo Salvini, Adolfo Urso e Gilberto Pichetto Fratin hanno rivendicato autonomia nello scegliere quale tecnologia usare per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione, compresi i biocarburanti, secondo il principio della neutralità tecnologica. Lo stesso principio ribadito da Meloni a Bruxelles. Il nodo sta tutto in cosa si intende per “combustibili neutri in termini di emissioni di CO2”, un’espressione contenuta nel considerando 11 del regolamento a cui sono appesi i confronti di Roma e Berlino con la Commissione. Come ha chiarito ieri Timmermans, la Commissione fa riferimento agli e-fuel prodotti con l’idrogeno e non ai biocarburanti, che derivano invece dagli scarti organici dell’industria agroalimentare e dai rifiuti. Nel primo caso serve molta energia elettrica e molta acqua per la produzione, ma se l’elettricità viene da fonti di energia rinnovabili gli e-fuel possono essere considerati a zero emissioni. Nel caso dei biocarburanti c’è invece un abbattimento delle emissioni di circa l’88 per cento rispetto a quelli tradizionali: una quota rilevante, che in fase di transizione può essere vantaggiosa, ma che è considerata poco ambiziosa per gli obiettivi ambientali dell’Europa nel 2035. Tuttavia, mentre per avviare la produzione dei carburanti sintetici su scala industriale ci vorrà auspicabilmente il 2025, secondo l’eFuel Alliance, quella di biocarburanti è già realtà, con Eni, tra gli altri, impegnata con successo nella ricerca su quelli di seconda generazione. “Ci sono delle tecnologie sulle quali l’Italia, e dunque anche l’Europa, sono potenzialmente un’avanguardia”, ha sottolineato Meloni. Ed è soprattutto su questo argomento che continuerà a fare leva la premier per tentare di portare a casa anche solo una dichiarazione d’intenti che non chiuda la porta ai biocarburanti.


Sport
Ieri 23-03-23, 17:16
Bagnaia e Bastianini proveranno a non trasformarsi in Senna e Prost
Chissà se Pecco Bagnaia ed Enea Bastianini faranno la fine di Senna e Prost o si fermeranno prima. La loro Ducati è un po’ come la McLaren di quei due là che vinse quindici gran premi su sedici. Va bene che quest’anno in MotoGp le gare raddoppiano, grazie alle Sprint Race del sabato, ma le moto made in Bologna - Borgo Panigale hanno tutto per colorare di rosso la stagione. Ci attende un monocolore Ducati tra team ufficiali e team satelliti con qualche spruzzata di Aprilia e magari un risveglio giapponese. Ci sono insomma tutti i presupposti perché la sfida in famiglia tra Pecco ed Enea si trasformi nella lotta per il titolo. Hanno già cominciato l’anno scorso a darsele tra di loro, fermando i cazzotti un po’ prima che diventassero colpi proibiti. Si sono sfidati, ma restando nei limiti. Non hanno mai dimenticato il rispetto reciproco. Pecco ed Enea sono nati tutti e due nel 1997, ma quasi ad un anno di differenza. Pecco è di gennaio, Enea di dicembre. Sono capricorni. Stesso segno, ma in pratica due facce della stessa medaglia. Uno arriva da Chivasso, l’altro da Rimini. Si sono incontrati da bambini sulle mini moto. La prima sfida la ricordano benissimo, era il 2006. Enea finì lungo e disteso, lungo come può esserlo un bimbo di nove anni, e Pecco gli finì addosso volando pure lui. Le loro strade poi si sono divise. Bagnaia è andato a imparare in Spagna, Bastianini si è fatto le ossa con la Red Bull Rookies Cup, monomarca targato KTM. La stagione chiave per le loro carriere è stata il 2014. Bagnaia dopo un anno complicato con il Team Italia, si rilanciò con lo Sky Racing team e l’accademia di Vale, la VR46 spalla del capitano Romano Fenati. Bastianini cominciò a farsi notare con la KTM del team Gresini, il team che lo ha portato poi fin qui. Hanno mancato tutti e due il titolo in Moto3, ma sono diventati campioni del Mondo in Moto 2, tutti e due alla loro seconda stagione nella categoria. Oggi sono compagni di squadra nella squadra destinata a dominare il campionato. Sono uno il primo avversario dell’altro. Amici sì, ma fino alla prima carenata in pista. L’anno scorso quando erano ducatisti, ma su due sponde differenti, l’incidente lo hanno solo sfiorato. Sono arrivati al limite, ma non l’hanno mai superato anche se ad un certo punto, quando vedeva il titolo avvicinarsi, Pecco è sbottato in un "Bastianini, è con me o contro di me, cosa sta facendo?" sfogo riportato nel film ufficiale del campionato, intitolato non a caso “There Can Be Only One”. Ce ne può essere uno solo. Uno solo diventerà campione anche quest’anno. Da una parte c’è chi vuole restare nella storia dopo la rimonta mostruosa dello scorso anno vincendo il secondo titolo di fila, dall’altra c’è chi crede di meritarlo pure lui quel titolo. Di terzi incomodi non si parla. Non sono previsti. Per ora. La loro marcia d’avvicinamento alla prima sfida, in programma in questo fine settimana in Portogallo è stata soft. Parole di circostanza. Quasi studiate ad arte. “Le mie sfide con Enea hanno fatto un sacco di rumore, la gente ci vuole uno contro l’altro. Siamo avversari, d’accordo: ma amici”, ha detto Pecco. "Durante il primo test in Malesia mi sono trovato subito a mio agio con tutti, sono riuscito anche a collaborare con Pecco, abbiamo instaurato un rapporto per provare a migliorare la moto insieme. Fin qui tutto bene, adesso tocca a me dimostrare di aver meritato questa occasione. L’attesa è finita, non vedo l’ora". L’attesa è davvero finita. Ora parlerà il cronometro che può facilmente mettersi di mezzo. Pecco e la Bestia Enea si rispettano. Non sembrano Senna e Prost. Assomigliano di più a Hamilton e Rosberg, avversari sì, ma senza mai alzare i toni, senza mai arrivare a buttarsi fuori uno con l’altro. Nello sport dei motori è un attimo passare da una parte all’altra. Dall’essere migliori amici a non parlarsi più. Ricordatevi Villeneuve e Pironi. Inseparabili fino a Imola 1982. Quando in squadra ci sono due campioni è difficile che uno goda delle vittorie dell’altro. Il gioco di squadra esiste solo per l’amministratore delegato e il team principal. Per loro esiste un avversario da battere. Con ancora più gusto visto che corre con la stessa moto. Claudio Domenicali e Gigi Dall’Igna sanno di avere messo insieme una miscela esplosiva. Sono convinti che tutti vorrebbero due piloti così. L’impressione è che tutti vorrebbero due moto così. In Ducati si sono già scottati ai tempi di Dovizioso e Iannone. Una nuvola rossa nella sabbia non la vogliono più vedere. Quest’anno vogliono dimostrare di saper gestire anche gli uomini oltre che le moto. Vincere non basta più. Vogliono provare a stravincere.


Sport
Ieri 23-03-23, 14:10
Bojan Krkic e la scoperta della libertà della bicicletta
C'era un tempo nel quale una grandissima parte di chi si diceva, dice, "esperto di calcio" considerava Bojan Krkic un giocatore in rampa di lancio per diventare uno dei migliori attaccanti al mondo. Previsione scontata, o così sembrava, per un giocatore che segnava un gol dietro l'altro con la maglia delle giovanili del Barcellona. E allora la cosiddetta "cantera" del Barcellona era considerata il massimo del massimo del calcio giovanile europeo, una sorta di Eden dello scouting di futuri campioni. Bojan Krkic segnava così tanto – in otto anni alla Masia ha messo a segno 648 reti in partite ufficiali, in media quasi tre gol a partita – che sembrava destinato a essere un altro Messi. Mica male avere due Messi in squadra, pensavano a Barcellona. Non ci furono due Messi in maglia blaugrana. Bojan Krkic fece un buon primo anno: 10 gol in 31 partite nella Liga, un gol in nove gare in Champions League, niente male per uno che diventò maggiorenne in quella stagione. A rimettere in fila ricordi e dati è stata anche l’unica. Non iniziò a passarsela bene Bojan Krkic. Poi iniziò a non passarsela bene neppure il Barcellona. Bojan Krkic ha girato qua e là in Europa prima, nel mondo poi, non è mai riuscito a realizzare i progetti che gli altri avevano per lui e che probabilmente lui stesso aveva per sé. A tirar le somme è poca roba novantatré gol in carriera per uno come lui. Non se lo aspettavano, non se l’aspettava, che andasse a finire così. Perché è finita così. Bojan Krkic ha deciso di ritirarsi dal calcio. A trentadue anni, dopo una vita nella quale non ha vissuto l’adolescenza, nella quale si è trovato al centro di aspettative più grandi di lui. Abbastanza facile per uno che è alto un metro e settanta per una sessantina di chili. Il problema è che Bojan Krkic non ha mai avuto pace, forse non se l’è neppure concessa. Ha rincorso per tutta la carriera, o almeno gran parte di essa, un ritratto di se stesso che non gli calzava. S’è ritrovato aggrovigliato in un gomitolo di speranze andate a male, promesse non mantenute, entusiasmi svaniti. Ha cercato una soluzione, non l’ha trovata. Ha capito che non sarebbe riuscito a trovarla, non almeno con il pallone tra i piedi. Bojan Krkic ha capito però che una via di fuga a tutto questo c’era. E ce l’ha sempre avuta lì davanti, in quelle biciclette che teneva in garage, sulle quali pedalava e aveva sempre pedalato. “La bici mi è sempre piaciuta, anche come mezzo di trasporto. Ogni volta che potevo mi mettevo in sella, non era un problema per il calcio: la bici è meglio per la mia professione che correre o nuotare, ti permette di prepararti o addirittura di recuperare se hai qualche problema. Non ha alcun impatto”, ha detto a Marca. “Prima andavo soprattutto in mountain bike, ma poi mi sono innamorato del gravel (cioè, in estrema sintesi, quelle biciclette che sono a metà tra bici da corsa e mountainbike e che permettono, grazie a pneumatici più larghi di pedalare con facilità anche su strade non asfaltate, ndr). Solitamente faccio percorsi di due o tre ore, soprattutto nei fine settimana, ma spesso anche di mattina negli altri giorni. Mentre si pedala ci si sente liberi”. Ha trovato nella bicicletta quello che il calcio non gli riusciva più a dare. La serenità mentre si fa qualcosa che piace. Trentadue anni è una buona età per cambiare, per buttarsi a capofitto in una nuova occupazione. Soprattutto quando la si è già intrapresa anni prima senza averne del tutto accortezza. L’anno scorso aveva deciso di investire in un marchio di biciclette, che è stato lanciato a febbraio: GUAVA. L’idea era stata di David Álvarez e Nacho Suárez, due amici con 25 anni di esperienza nel settore delle bici, ed è stata resa realtà anche grazie la Never say never Ventures (NSN), l'incubatore di imprese di Andrés Iniesta. L’addio al calcio potrebbe essere un’occasione per fare altro, non solo l’imprenditore. "Non ho ancora nulla di definitivo in programma, ma qualche idea. L’essere entrato in questo progetto mi dà la possibilità di legarmi al ciclismo. È un buon modo per combinare sport e attività sociale. Poi chissà”. Potrebbe gareggiare. Potrebbe. C’ha pensato, ci sta pensando. Il gravel è un mondo in espansione, anche nelle competizioni. C’è stato un tempo nel quale anche Bojan Krkic è stato un mondo in espansione. Non è andata davvero così. Ma forse aveva sbagliato soltanto sport.


Sport
Ieri 23-03-23, 14:01
Come il Portogallo ha superato gli sbalzi generazionali
In questa settimana di Nazionali, dove i calciofili incalliti devono combattere l’astinenza dai campionati, a catalizzare l’interesse di sportivi e addetti ai lavori sono le Nazionali. Tra queste, sarà interessante scoprire le novità del Portogallo. Dopo gli anni di Fernando Santos, con la vittoria dell’Europeo 2016 e della prima Nations League, ora tocca a Roberto Martínez. Uno, sulla carta, specializzato nelle “generazioni d’oro”, ma che con quei talenti non ha mai sfondato. Il capitale umano offerto dal Portogallo sembra perfetto per il credo tattico dello spagnolo. Il neo ct predilige il palleggio e fa grande affidamento sulle giocate dei singoli per saltare la pressione avversaria. A tale scopo, potrà contare su Leao, Bruno Fernandes, Bernardo Silva e Cancelo e su una rosa completa in ogni reparto. L’incognita-risorsa è Cristiano Ronaldo, che non ha ancora detto addio alla Nazionale nonostante un Mondiale difficile. Diversamente dai suoi predecessori, Martínez potrà contare su un organico che pare aver superato gli sbalzi generazionali grazie a un ricambio costante, non più legato alle bizze dei periodi storici. A rifornire di talenti la Seleçao, un sistema sportivo con alla base le scuole e al vertice le accademie di Sporting Lisbona, Benfica e Porto. Tutto parte dalla riforma dell’Istruzione del 1989, con cui il governo ha ridisegnato il sistema scolastico includendo l’attività sportiva tra i pilastri dell’educazione delle nuove generazioni. Le strutture sono state rifornite di materiale e l’accesso allo sport di base è stato esteso a tutti i cittadini, ampliando radicalmente il bacino d’utenza della nazionale. I primi effetti si sono visti nei primi anni Duemila, quando la Seleçao dei vari Deco, Figo, e Rui Costa sorprendeva nelle rassegne internazionali. Oggi, la nuova Nazionale ha individualità eccezionali non solo in campo, ma anche in panchina. Al timone del Belgio, nel Mondiale vinto dall’Argentina, l’allenatore iberico si è fermato ai gironi, raccogliendo quattro punti contro avversarie non certo proibitive. Eppure, i disastri di campo raccontano solo in parte il flop dei Diavoli rossi, che hanno affrontato la rassegna con lo spogliatoio spaccato e i senatori in rivolta. Prima un’intervista del giocatore simbolo, De Bruyne, che alla vigilia del torneo aveva detto al Guardian “Non abbiamo nessuna possibilità di vincere, siamo ormai troppo vecchi”, poi la contestazione interna per la scelta di continuare a insistere con Eden Hazard (che al Real Madrid non gioca mai e da anni lotta con svariati problemi fisici) al centro del progetto tecnico. La condizione fisica disastrosa di Lukaku e la mancanza di verticalità hanno fatto il resto, con conseguenti dimissioni. D’altro canto, anche i lusitani hanno tradito le attese, in Qatar. Partito tra le favorite del torneo, il Portogallo si è fermato ai quarti. Merito di un Marocco pugnace, ma anche del clima causato da Ronaldo. Tutto comincia con l’inelegante divorzio con il Manchester United, club dove gioca l’altro leader tecnico della squadra, Bruno Fernandes. Al ritiro, il capitano dei Red Devils a malapena saluta CR7, reo di aver spaccato l’ambiente di Old Trafford. Da lì, Ronaldo pascola per il campo e al contempo pretende di giocarle tutte. Un atteggiamento che fa infuriare Santos, che lo esclude dai titolari. Un atto di lesa maestà per il cinque volte Pallone d’oro, che punta i piedi e incendia anche lo spogliatoio del Portogallo, contribuendo in modo significativo all’eliminazione della squadra. Questo il difficile quadro in cui dovrà muoversi Martínez, passato da una generazione d’oro sul viale del tramonto a un’altra con il sole allo zenit. La novità sarà proprio il rapporto con il bizzoso Ronaldo. Il capitano della Nazionale sembra aver ormai compromesso i rapporti con i compagni; inoltre, è fuggito in un esilio più che dorato in Arabia Saudita, un campionato non allenante. Nonostante ciò, il nuovo CT non ha voluto peccare di lesa maestà e ha preferito includerlo ancora tra i convocati. Se sia mancanza di coraggio o l’inizio di un graduale demansionamento del super campione, con la squadra che prevarrà sull’ego del singolo, lo dirà il campo.


Sport
Ieri 23-03-23, 13:35
Onnis, il bomber snobbato dall’Italia che in Francia segnava più di Platini
Partire dalla Ciociaria per arrivare a scrivere la storia del calcio francese. Crescere in Argentina, ma rimanere per sempre e solo italiano: “Non ho mai avuto un altro passaporto”. Il passaporto sì, ma la Nazionale mai, nonostante i 299 gol segnati in carriera nell’attuale Ligue1. Nessuno ne ha realizzati di più: “C’erano dei mostri come Riva e Rivera, per me non c’era spazio anche se mi sarebbe piaciuto molto”. Delio Onnis si è trasferito con la famiglia nel 1950 in Argentina da Giuliano di Roma, paesino in provincia di Frosinone con poco più di 2mila anime. Aveva appena due anni. “Non ho ricordi della mia vita italiana”. Eppure la lingua la capisce e mastica, sebbene non possa essere fluida come lo spagnolo. “Gli argentini trattavano in maniera molto dispregiativa gli spagnoli e gli italiani. Noi eravamo i 'morti di fame', gli spagnoli i 'grezzi e ignoranti'. Ci chiamavano così, è stato un periodo molto difficile per gli immigrati. Dopotutto lo eravamo davvero, reduci dalla guerra e con diversi problemi, per questo siamo andati via. In Argentina si viveva molto bene, adesso è tutto cambiato, la merda ora è qui”. Già, perché nonostante l’accoglienza poco calorosa, Onnis oggi trascorre ancora diverso tempo nel paese in cui è cresciuto e ha iniziato a costruire il suo futuro, facendosi conoscere come “El Tano”, l’italiano che segnava molti gol nelle giovanili dell’Almagro, quartiere di Buenos Aires, e poi nel Gimnasia La Plata. La sua vita però la trascorre quasi interamente a Montecarlo, dove la sua fama da calciatore lo precede. A portarlo in Francia fu lo Stade Reims nel 1971: un biennio preparatorio al trasferimento nel Principato. Lì gioca per sette anni, provando l’onta di una retrocessione, ma vincendo anche un campionato, una Coppa di Francia e affermandosi come uno dei due migliori bomber del decennio. L’altro è una futura conoscenza del calcio italiano, seppur con veste diversa, Carlos Bianchi. Si dividono equamente i titoli di capocannoniere per un decennio, dal 1974 al 1984, cinque ciascuno: “Era una rivalità sana, ho giocato con lui al Reims sei mesi, poi sono andato al Monaco. In quegli anni in Francia c’era anche un tale Platini e tutti gli chiedevano come mai non fosse mai stato capocannoniere nonostante fosse così forte e lui rispondeva sorridendo: 'Eh beh…ci sono quei due mostri di Onnis e Bianchi, non posso esserlo io', ed è andato via dalla Francia senza mai vincere la classifica marcatori”. In Serie A ci riuscì invece tre volte di fila. Quella Serie A che non mai ha dato una possibilità a Onnis: “Ai miei tempi non c’erano i procuratori, ti contattavano direttamente e con me non lo ha mai fatto nessuno. Una volta però Helenio Herrera era venuto per vedermi giocare in Corsica, a Bastia. Sfortunatamente quella notte andò via la luce dallo stadio e sospesero la partita. Da quel giorno in poi non ho più avuto possibilità di giocare in Italia”. Insomma, non è mai scattata la scintilla nonostante i gol e una cittadinanza che nel periodo di chiusura delle frontiere, con il divieto di acquisto di giocatori stranieri, gli avrebbe consentito di arrivare, anzi, tornare in Italia senza problemi e di poter ambire alla maglia azzurra, l’unica possibile per lui: “Avendo avuto sempre e solo il passaporto italiano, nemmeno l’Argentina poteva convocarmi”. Può aver pesato il pregiudizio di giocare in un campionato ancora lontano, a suo tempo, dall’eccellenza calcistica: “Dalla seconda metà degli anni Settanta il livello si è alzato molto in Francia con l’esplosione dei vari Platini, Giresse, Tigana, giocatori che hanno composto l’ossatura della squadra campione d’Europa nel 1986. Ho giocato contro tutti loro”. Dopo il Monaco, con il Tours e il Tolone: ogni volta ceduto con la sensazione che il declino fosse evidente, prima di riuscire a rivincere ancora il titolo di capocannoniere con ogni maglia indossata. Divenne “Monsieur 300 buts”, anche se ironia ha voluto che il conto dei suoi gol in Ligue1 si fermasse nel 1986 a 299, una cifra comunque sufficiente a non preoccuparsi di potenziali aspiranti al suo trono, Mbappé permettendo. In Francia ha trovato la fama calcistica che Italia e Argentina non gli hanno mai riconosciuto, ma non solo: “Sono in Francia dal ‘71, i miei figli sono francesi e viviamo a Montecarlo. Auspicavo Argentina-Francia in finale al Mondiale, ma alla fine loro erano molto arrabbiati. Ci siamo consolati con il fatto che Messi meritasse questo trionfo”. Eppure Delio Onnis conserva ancora la gratitudine per quel Paese che non ha mai vissuto e lo ha ignorato professionalmente: “Certo che mi sento italiano, sono le mie radici e non si dimenticano. Ma ciò non mi impedisce di essere sia argentino che francese e monegasco, non mi vergogno a dirlo. Sono poi tornato sia a Frosinone che a Roma, dove si trovano tanti miei familiari”. Le sue origini non le ha affatto dimenticate: “Nel cuore tifo il Frosinone, il posto in cui sono nato. Ho visto che in Serie B è primo con molto vantaggio, come il Napoli in Serie A. Mi auguro che ce la faccia a salire”.


Economia e Finanza
Ieri 23-03-23, 13:11
Superbonus, caro bollette e Mes: il question time con il ministro Giorgetti. La diretta
Oggi alle 15 il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti risponderà a un question time al Senato insieme ai ministri della Famiglia e degli Esteri Eugenia Roccella e Antonio Tajani. Al centro delle domande, per quel che riguarda il titolare del Mef: il Superbonus, la risposta al caro bollette, il Mes e l'inflazione. Sul Superbonus, Giorgetti dovrà rispondere a un'interrogazione presentata dai tre senatori del Pd Daniele Manca, Simona Malpezzi e Antonio Misiani, in cui gli si chiede "quali misure intenda adottare per garantire la continuità, il rafforzamento e una maggiore efficacia dei vigenti strumenti di finanziamento degli interventi di riqualificazione energetica del patrimonio edilizio privato", dato che il problema del bonus edilizio riguarda ora come ora principalmente il blocco dei crediti d'imposta.


Politica
Ieri 23-03-23, 13:09
Cerasa a Tagadà: "Certi discorsi della Lega sull'Ucraina sembrano scritti da Lavrov"
Il capogruppo della Lega al Senato Massimiliano Romeo, ieri in Aula, ha annunciato il voto favorevole del suo gruppo sul sostegno a Kyv, ma espresso "la forte preoccupazione su come stanno andando le cose sul fronte della guerra tra Russia e Ucraina", con una pericolosa escalation rappresentata dall'invio di "armi sempre più potenti" alla resistenza ucraina. "E' ridicolo pensare sia la posizione personale di un senatore: esprime la posizione del partito. Sembra un discorso scritto dal ministro degli Esteri russo Lavrov. Esprime una linea netta nella quale la Lega considerà responsabilità dell'occidente la mancanza di pace in Ucraina", dice il direttore del Foglio a Tagadà su La7. "E dopo un anno, tocca ripeterlo ancora: per fermare la guerra non bisogna fermare la resistenza Ucraina, bisogna semplicemente fermare Putin". Quella del Carroccio, aggiunge Cerasa, è "una posizione che nasce anche in risposta a quella dei 5 stelle, schierati sul pacifismo farlocco. Questo crea competizione e la Lega cerca di non fasri sfuggire quel pezzo di elettorato"


Politica
Ieri 23-03-23, 12:38
Come si informano i parlamentari? Ecco la dieta mediatica (con il Foglio sul podio)
Tra i quotidiani cartacei, il Foglio è il terzo più letto tra i parlamentari italiani dopo Il Sole 24 Ore e il Corriere della Sera. Dietro tutti gli altri (da Repubblica alla Stampa, dal Messaggero al Fatto, dalla Verità al Giornale). E' uno dei dati che emergono dal sondaggio condotto da Quorum/YouTrend e istituto Cattaneo Zanetto & Co, costruito su un campione di 41 tra deputati e senatori, pescati in maniera rappresentativa tra maggioranza e opposizione e per fasce anagrafiche o di provenienza territoriale. Dalla rilevazione si nota anche che, in quanto ad affidabilità delle notizie pubblicate dai media, al nostro giornale viene riconosciuto il terzo miglior punteggio medio (6,3 in una scala da o a 10) tra i quotidiani nazionali, dopo Sole 24 Ore e Corriere della Sera. In generale, per quel che riguarda la dieta televisiva, spicca una maggiore preferenza per le reti Rai e Sky rispetto a Mediaset (i cui telegiornali, però, vengono consultati almeno una volta al giorno da praticamente tutti i parlamentari della maggioranza). Tra i telegiornali generalisti Tg1, Tg2 e Tg3 sono quelli più seguiti (dall'86 per cento del campione), mentre la rete all-news che va per la maggiore è SkyTg24 (seguita in maniera praticamente equanime tra maggioranza e opposizione). Tra i quotidiani online, la principale fonte d'informazione è il sito del Sole 24 Ore (consultato dall'87 per cento dei parlamentari), subito dopo ci sono Huffington Post (82 per cento) e Corriere della Sera (75 per cento). La versione online del Foglio è consultata dal 59 per cento degli eletti (il 79 per cento di maggioranza, il 30 per cento di opposizione), stando al campione. Il 100 per cento dei parlamentari interpellati si informa su Facebook e oltre l'80 per cento su Instagram (anche WhatsApp viene considerato un social e lo usa il 100 per cento dei sondati). TikTok rimane appannaggio di una minoranza (e lo usano più i parlamentari di opposizione). Qui sotto il rapporto completo.


Politica
Ieri 23-03-23, 12:33
Rai way: sulle nomine è già scontro Lega e Fi
I nomi ci sono ma l’intesa no. Alle ore 19 il Cda della Rai si riunisce. All’ordine del giorno l’indicazione dei vertici di Rai Way, la partecipata Rai che detiene le torri di trasmissione e che la Rai prevede di cedere. La Rai è chiamata a fare due nomi: quello del presidente e quello di ad. Il cda di Rai way è scaduto a dicembre, ma il cambio dell’attuale ceo, Aldo Mancino, è inatteso e preoccupa non poco gli operatori finanziari. Gli istituti di credito, che hanno letto stamattina la notizia sono perplessi. I favoriti per la carica di presidente e di ad sono rispettivamente Giuseppe Pasciucco e Roberto Cecatto. Uno è il capo staff dell’ad Carlo Fuortes (in procinto di lasciare la Rai per andare alla Scala) mentre l’altro, Cecatto, è direttore della Infrastrutture Rai. Quest’ultimo è un uomo vicino alla Lega, partito che otterrebbe così una preziosa nomina, la prima vera nomina in una partecipata. Pasciucco aveva invece già ricoperto la carica di presidente del Cda di Rai Way ma si era dimesso. Una delle ragioni che lo avevano convinto a lasciare era il nuovo incarico di capo staff. Da anni si parla di un progetto di fusione tra Rai Way e Ei Towers, società del gruppo Mediaset. Obiettivo è costruire un colosso delle torri. Da capo staff, Pasciucco aveva ritenuto incompatibile, mantenere anche l’altra carica. Oggi il ritorno, forse. Il Cda della Rai è infatti spaccato. I voti al momento sono tre a tre. Pesa il voto di Marinella Soldi, presidente della Rai, ormai in conflitto con Fuortes. Ma pesa anche il voto di Simona Agnes, vicina a Gianni Letta, l’incaricato da Berlusconi per gestire il dossier nomine. In Rai starebbe per andare in scena il primo scontro sulle nomine tra Lega e Forza Italia. Il Mef, azionista Rai, e il suo ministro Giancarlo Giorgetti, appoggiano le indicazioni di Fuortes. Forza Italia, che deve ottenere e farsi valere al prossimo tavolo, fa ostruzione. È solo un’esercitazione di nomine ed è già una prova di lite.


Politica
Ieri 23-03-23, 10:25
Il colpo che Meloni deve battere sulle nomine
Al direttore - Ho avuto una certa esperienza nel mondo delle partecipate e credo che il governo dovrebbe seguire un criterio nelle nomine di stato: la competenza. Questo criterio deve essere applicato in modo trasparente e oggettivo: bisogna parlare la lingua dei mercati, inclusa la lingua inglese, per interagire efficacemente con le realtà internazionali. L’affidibilità futura di Meloni passerà da questa strada stretta. E in gioco, tra Enel, Eni, Poste, Leonardo vi è qualcosa di più importante di una semplice sessione di nomine: vi è la scelta tra essere un governo che sceglie di scommettere sul futuro e un governo che sceglie di restare ostaggio del passato. Cara Meloni, batti un colpo.


Estero
Ieri 23-03-23, 10:23
Meloni al Consiglio europeo: "Sull'Ucraina la linea dell'Italia è chiara, la Lega non mi preoccupa"
Tra oggi e domani si svolge a Bruxelles il Consiglio europeo che raduna i ventisette capi di stato dell'Unione. Sul tavolo ci sono numerosi temi che, come ha sottolineato negli scorsi giorni un alto funzionario Ue, hanno per lo più un indirizzo “geo-economico”: il più importante è sicuramente la riforma del Patto di stabilità, che occuperà gran parte delle consultazioni. Ma sarà dedicato ampio spazio anche al capitolo energia – soprattutto in merito allo stop delle auto a benzina fissato al 2035 – e agli aiuti all'Ucraina. Si parlerà anche di immigrazione, seppur solo marginalmente. Giorgia Meloni ha fatto sapere questa mattina che si sentirà personalmente con Emmanuel Macron. È inoltre previsto un incontro con il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki e quello greco Kyriakos Mītsotakīs. Di seguito l'agenda e le dichiarazioni della premier sui diversi argomenti. Patto di stabilità La nuova governance economica sarà al centro dei colloqui di oggi pomeriggio. Sul Patto di stabilità rimane evidente la spaccatura fra i diversi stati membri: la maggior parte spinge per ottenere una maggiore flessibilità, magari con un ritocco delle regole (le cosiddette golden rule) legate agli investimenti del Green Deal. L'Italia è fra questi: Giorgia Meloni chiederà probabilmente una golden rule per le risorse spese nella transizione. Ma resta lo scoglio dei paesi “frugali” che chiedono invece dei benchmark più stringenti nel rientro dal debito. Da questo punto di vista è importante segnalare l'incontro avvenuto di recente fra la premier e l'omologo olandese Mark Rutte, che ha segnato un tentativo di intesa su diverse posizioni fra i due paesi. Giorgia Meloni ha dichiarato questa mattina: “Su queste materie ci sono visioni abbastanza differenti. L'Ue deve imparare dai suoi errori e dalla realtà. Oggi a noi sono chiesti importanti investimenti che modificano un'assenza di attenzione che c'è stata in passato. Non si può pensare che gli investimenti necessari a rendere competitivo il nostro sistema non vengano tenuti in considerazione nella governance, che dev'essere più attenta alla crescita che alla stabilità. Ci sono dei passi in avanti ma bisogna ancora lavorare molto” Energia e stop alle auto a benzina Lo stop alle auto a benzina votato dal Parlamento europeo ha suscitato contestazioni in diversi paesi dell'Unione: l'incontro fra la premier e il primo ministro polacco – uno dei più critici sull'argomento – va in questa direzione. Giorgia Meloni ha detto questa mattina che “fermi restando gli obiettivi della transizione, noi non riteniamo che sia l'Unione a stabilire quali siano le tecnologie con cui arrivarci”. I negoziati, dopo l'approvazione in sede parlamentare, si stanno ora tenendo tra Berlino e Bruxelles e domani è previsto un incontro bilaterale tra il cancelliere Olaf Scholz e la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Venerdì mattina ci sarà quindi un vertice fra il cancelliere tedesco e il presidente francese Emmanuel Macron. La guerra in Ucraina L'agenda si concentrerà poi sul sostegno all'Ucraina. In merito a ciò, Meloni ha affermato: “Le posizioni della Lega non mi preoccupano. Il punto è capire cosa sia utile per arrivare alla fine del conflitto. La negoziazione dev'essere giusta: bisogna badare ai fatti e la posizione italiana è molto chiara”. Immigrazione Come detto, l'immigrazione sarà affrontata solo marginamente dal Consiglio europeo. Nello specifico, è previsto un punto informativo di Ursula von der Leyen nel corso della cena. La premier ha in ogni caso commentanto l'argomento affermando che “il tema dell'immigrazione è considerato oggi centrale, una cosa impensabile fino a qualche mese fa, e viene seguito passo passo dal Consiglio”.


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Ieri 23-03-23, 08:25
Mancini prova a spingere l'Under 21 alle Olimpiadi
"Abbiamo giocatori giovani che oggi non sono qui con noi, ma che ci sarebbero stati e che ci saranno da qui a novembre prossimo", si è lasciato scappare Roberto Mancini nella tradizionale conferenza stampa prepartita di Italia-Inghilterra. E se lunedì aveva risposto alle domande dirette relative agli esclusi più in vista (Zaccagni, Casale, Kean e Zaniolo), stavolta il messaggio è stato lievemente più criptico. In una Nazionale che inizia oggi, contro l’Inghilterra, il suo cammino verso l’Europeo del 2024, ci sono altri assenti che fanno meno rumore ma non per questo non destano interrogativi. È il caso di quei ragazzi che sono stati lasciati all’Under 21 di Paolo Nicolato pur avendo le carte in regola per bussare alla porta della Nazionale maggiore, soprattutto considerando che il commissario tecnico ha scelto di proseguire con una linea abbastanza particolare, che vede tra i convocati elementi giovanissimi come Simone Pafundi. Destiny Udogie, Fabiano Parisi, Samuele Ricci, Nicolò Fagioli, Tommaso Baldanzi: a voler interpretare il non detto, sembrerebbero questi i cinque “under” in odore di salto. Guardando al futuro, all’orizzonte di un Mondiale 2026 al quale partecipare diventa un obbligo, scopriamo che nessuno dei cinque sarebbe poi così giovane: Udogie si troverebbe alle soglie dei 24 anni, Parisi dei 26, Ricci dei 25, traguardo che Fagioli supererebbe di qualche mese. Discorso diverso per Baldanzi, il più fresco della compagnia, nato a marzo del 2003. Un elenco in cui potrebbe essere incluso anche Fabio Miretti, non aggregato all’Under 21 per problemi fisici, e Lorenzo Colombo: in una Serie A in cui non si vedono all’orizzonte gol di attaccanti italiani, avrebbe potuto fargli comodo qualche allenamento con i grandi. Ma per quale motivo, invece di optare per l’immediata promozione, Mancini ha preferito concederli a Nicolato, tanto più che gli azzurrini saranno impegnati in amichevole? Se da un lato non giochiamo una partita a eliminazione diretta in un Mondiale dalla finale del 2006, dall’altro c’è l’inquietante ruolino dell’Under 21 negli ultimi anni, in grande continuità con i risultati della Nazionale maggiore, che almeno può vantare l’exploit del 2021 all’Europeo. Gli azzurrini hanno mancato gli ultimi tre appuntamenti olimpici, il cui pass è legato a filo doppio ai risultati negli Europei di categoria: l’epoca d’oro delle avventure agli ordini di Cesare Maldini e Claudio Gentile sembra ormai un’utopia. Dal secondo posto di Israele 2013, con la squadra allenata da Devis Mangia sconfitta in finale con la Spagna, i risultati sono stati al limite del tragico: due eliminazioni al primo turno, una semifinale, un quarto di finale. Entrare nelle prime quattro nel torneo che si terrà quest’estate tra Romania e Georgia vuol dire strappare un visto olimpico: la strategia è dunque quella di cementare l’unione dell’Under 21 di Nicolato, a costo di sottrarre giocatori alla Nazionale maggiore. Non si spiega altrimenti la decisione di rinunciare a Udogie, autore di una buonissima stagione con la maglia dell’Udinese, o di Parisi, un altro terzino sinistro che sta mostrando di essere più che valido in Serie A, anche nel momento del forfait di Dimarco, con Mancini che ha preferito richiamare Emerson Palmieri, giocatore marginale in un West Ham che fatica a uscire dalla zona retrocessione in Premier League; per Ricci e Fagioli può almeno valere il discorso della concorrenza, con il centrocampo azzurro che pare essere l’unico reparto all’altezza della nostra tradizione calcistica. Non ci resta che aspettare il prossimo giro di giostra delle qualificazioni a Euro 2024: non dovremmo vederli neanche nelle Final Four di Nations League, le cui date si sovrappongono all’Europeo Under 21. A settembre l’Italia volerà in Macedonia del Nord. Un avversario che, incredibile a dirsi, ci mette i brividi.


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Ieri 23-03-23, 08:11
Il ritiro di Mesut Ozil lascia un vuoto negli appassionati di calcio cresciuti su Youtube
Il calcio è sempre stata una cosa facile per Mesut Özil. Un tocco palla ai limiti della leggiadria estetica, una visione di gioco fuori dal normale e una sinuosità che dava una musica a un gioco che spesso ha bisogno di essere duro e concreto. Per questo, forse, stare nel calcio non è stato facile per Özil quanto giocare. La lettera con cui ha annunciato il ritiro è un messaggio d’amore al gioco che lo ha reso, a suo modo, un’icona degli anni 10. "Ho avuto il privilegio di essere un professionista per 17 anni – dice –, ma nelle ultime settimane, dopo aver avuto diversi infortuni, ho capito che è tempo di lasciare il mondo del calcio". Özil è uno dei calciatori che ha più video di skills, assist e gol su Youtube e non poteva essere altrimenti. Il mito del calciatore turco-tedesco è nato allo Schalke 04, ma è nell’estate del 2009, durante l’europeo Under 21, che è venuto fuori con prepotenza. Il suo enorme talento, che con il Werder Brema ha trovato spazio di espansione, a Madrid non ha brillato come ci si aspettava. Colpa di un contesto enormemente diverso, a quel tempo ancora ossessionato dalla competizione con il Barcellona di Guardiola e dalla caccia alla decima Champions, colpa soprattutto di un allenatore, José Mourinho, che non ha mai valorizzato abbastanza quel tipo di calciatore. Kakà, Alli, Zaniolo, Juan Mata, Joe Cole, Özil, hanno tutti faticato. Forse solo Wesley Sneijder e Paulo Dybala si sono trovati a suo agio con Mou e con il suo modo di vedere il calcio, ma sono due trequartisti atipici. Via da Madrid, il punto di arrivo di ogni bambino che sogna di fare il calciatore, verso Londra, verso un nuovo inizio. All’Arsenal Özil ha vissuto la coda del wengerismo e la difficile ricostruzione, ma si è tolto alcune soddisfazioni, in una città che lo ha accolto e in cui ha potuto esprimere tutta la sua grandezza stilistica. La cifra del suo gioco non è mai stato il gol, quanto l’assist, un’arte che ha dominato e modellato a suo piacimento, come fosse una materia plastica, una creta. È coi Gunners, dove si è sentito libero di fare quasi tutto ciò che gli passava per la testa, che si è consacrato come uno dei migliori interpreti del suo ruolo, almeno in anni recenti. Eppure, il genio di un calciatore irrequieto e magico è stato al centro di polemiche, problemi, casi politici addirittura. Sì, perché Özil, che è nato a Gelsenkirchen nel 1988, ma è di origine turca, tanto che era eleggibile per entrambe le nazionali, ha giocato e vinto un mondiale con la Germania, ma è molto amico di Erdogan. Questo ha generato non pochi imbarazzi, soprattutto quando il calciatore si è espresso in difesa dell’autocrate, che è stato anche suo testimone di nozze. Un’amicizia così ingombrante ha avuto un effetto sulla sua carriera: una volta superato il picco, è andato a giocare in Turchia, prima al Fenerbahce, poi alla squadra del ministero dello sport, il Basaksehir. Nel mentre, tra Londra e Istanbul, Özil ha progressivamente svestito i panni del calciatore, non tanto per sopraggiunti limiti di età, quanto per sopraggiunta evoluzione del calcio, mettendo quelli dell’attivista. La difesa della causa uigura, la minoranza musulmana perseguitata nella provincia cinese dello Xinjiang lo ha portato ad allontanarsi dall’Arsenal e alla cancellazione dai media di Pechino e dintorni. Eppure, nel suo modo di pensare, twittare per mettere pressione ai governi a maggioranza islamica aveva senso. Da ieri, dopo qualche mese da svincolato, ha appeso gli scarpini al chiodo, lasciando un vuoto negli appassionati di calcio cresciuti su Youtube: un popolo di fan alle prese con l’invecchiamento che da ieri si chiede: “Ma quanto era bello quando Özil faceva assist vedendo cose che vedeva solo lui?”


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Ieri 23-03-23, 06:25
La via (necessariamente) global dell'Italia di Mancini
Per una nazione che tra l’Ottocento e Novecento ha visto partire trenta milioni di persone in cerca di fortuna o condizioni di vita migliori non è poi così difficile trovare qualcuno con un nonno o un bisnonno italiano da poter convocare in Nazionale quando c’è necessità. La sezione Football Analysis del Club Italia, l’organismo che riunisce e coordina le attività delle squadre nazionali, lo sa bene, per questo è da anni che monitora in tutto il mondo, soprattutto in Sudamerica, i migliori talenti che hanno la possibilità di richiedere il passaporto italiano. Legittimo, soprattutto in un calcio che è sempre più globalizzato e nel quale il tempismo, ossia l’arrivare prima nello scorgere un talento e “farlo proprio” – pare forse brutto ma è così –, è determinante e può garantire vittorie importanti. Roberto Mancini l’aveva detto all’alba del suo mandato da commissario tecnico che la Nazionale doveva ragionare come un club. Si riferiva anche a questo. E’ persona concreta Mancini, sa che se c’è un problema, questo non va ignorato o sottostimato, ma serve trovare il modo di risolverlo. Aveva suggerito alle squadre di Serie A di prestare più attenzione ai vivai e non si è fatto problemi a dare lui stesso il buon esempio prendendo proprio dai vivai i migliori prospetti – da Nicolò Zaniolo a Simone Pafundi –; aveva esternato più volte la necessità di una riforma del calcio italiano, sottolineato l’utilità delle seconde squadre per i club (sa di cosa parla, ha allenato in Inghilterra), e per la Nazionale; ha cercato, molto pacatamente a dire il vero, di spingere verso un allargamento della cittadinanza. Il mondo del calcio e quello della politica non hanno ritenuto di seguirlo. Liberi di farlo, è pur sempre soltanto un ct. Mancini ha guidato una Nazionale che in due anni ha vinto l’Europeo e non si è qualificata ai Mondiali: sintomo che di giocatori validi ce ne sono, ma anche tanti, tantissimi, problemi. Problemi ai quali però non sempre, quasi mai, si è prestata la giusta attenzione, perché in Italia si credono risolti alla prima vittoria. Lo stiamo assistendo anche in questi giorni di grandi applausi per le sei italiane ai quarti delle coppe europee. Mancini ha così deciso di fare ciò che aveva fatto Antonio Conte. Affidarsi agli oriundi. All’epoca fu critico nei confronti delle convocazioni di Eder e Franco Vázquez: “La mia opinione è che meriti la maglia azzurra un giocatore nato in Italia, non chi ha parenti italiani”. Se accorgimenti non ci sono stati dal mondo del calcio, allora tanto vale riconsiderare le proprie opinioni. Alla Nazionale serviva qualcuno che facesse gol. Mancini se l’è andato a prendere in Argentina. Mateo Retegui lo conoscevano in pochi, è cresciuto nel Boca Juniors, è stato scaricato dai Xeneizes in quanto non adatto alla Bombonera. Ha girovagato qualche anno con poche fortune, ma è da un anno e mezzo che segna parecchio. A volte un attaccante matura dopo aver conseguito la maggiore età. Compirà 24 anni tra pochi giorni, ha una carriera davanti. Quanto sarà azzurra lo si inizierà a scoprire da stasera: alle 20,45 l’Italia gioca contro l’Inghilterra la prima partita del girone di qualificazione agli Europei 2024.


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