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Estero
Due scenari per capire come potrebbe finire il vertice in Alaska fra Trump e Putin
Oggi 15-08-25, 06:12
Le probabilità che dal vertice di Ferragosto esca un compromesso che cambi la traiettoria della guerra sono minime. Se anche ad Anchorage il primo incontro fra Putin e un presidente americano dal giugno 2021, prima dell’inizio dell’invasione, si concludesse dopo pochi minuti con un nulla di fatto, il capo del Cremlino potrebbe esibire al suo popolo, e soprattutto al suo establishment, l’immagine plastica dell’obiettivo della politica estera della Federazione negli ultimi 15 anni: il riconoscimento di Mosca come interlocutore paritario da parte di Washington. E' per questo e per nessun altro motivo che Putin ha insistito su un incontro bilaterale: la presenza di Zelensky, o dei leader europei, avrebbe inquinato la scenografia con interlocutori non tanto ostili quanto marginali, rischiando di dare l’impressione che l’occasione riguardasse davvero l’Ucraina e preludesse a qualche concessione sostanziale del Cremlino. I cinque punti su cui Merz e Zelensky sostengono di avere ricevuto rassicurazioni da Trump riducono ulteriormente i margini di manovra. Il prevedibile rifiuto di Zelensky di prendere in considerazione il riconoscimento legale delle conquiste russe, e l’altrettanto scontata pretesa che un accordo di pace poggi su solide garanzie di sicurezza, si scontrano frontalmente con l’obiettivo che Putin ha dichiarato e mai rinnegato per l’“operazione militare speciale”: la “denazificazione” dell’Ucraina e il “salvataggio” delle minoranze russofone del Donbas, nel frattempo trasformato formalmente in parte integrante del territorio russo in virtù di un’acrobazia costituzionale. Le “cause profonde” più volte citate da Putin come nodo da sciogliere per fermare le operazioni militari, toccano l’essenza stessa della sovranità ucraina e, di conseguenza, una linea rossa esistenziale anche per il governo di Kyiv, rendendo difficile immaginare un punto di compromesso. Sul piano tattico, sebbene offuscato dalla nebbia della guerra e malgrado le importanti perdite di uomini e mezzi registrate dai russi quotidianamente, l’equilibrio del conflitto non sembra tale da segnalare la necessità urgente, per Mosca, di un cessate il fuoco. Infine, servono importanti sforzi di fantasia per immaginare di quali leve Washington pensi di disporre per spingere la Russia a invertire la rotta su obiettivi sostenuti da un’economia ormai in buona parte autarchica, nella percezione del Presidente ancora raggiungibili, e soprattutto indispensabili per la propria sopravvivenza politica. Sulla rigidità di questo sfondo negoziale, in Alaska si gioca una partita altrettanto importante: quella per la percezione del presidente Trump. Per ragioni che qui non c’è spazio per approfondire, Trump ha finora mostrato non solo una forte antipatia personale nei confronti di Zelensky, condita da dubbi sulla sua legittimità politica, ma anche la convinzione che sia lui il principale ostacolo alla fine della guerra. Questa percezione, erosa dagli eventi seppure a ritmi geologici, avrà nel vertice di oggi un momento decisivo. Due scenari sono verosimili. Il primo è che Putin riesca a salvarla e rinfocolarla. Come avvenuto in passato, ad esempio con la storia del presunto accordo di Istanbul minato dall’occidente nel 2022, egli potrebbe fingere un’apertura a concessioni di qualche sostanza, magari dilazionate nel tempo e subordinate ad altre condizioni difficilmente realizzabili. Se lo stato delle forze russe fosse peggiore di quanto conosciamo, potrebbe persino accettare un cessate il fuoco per guadagnare tempo e riorganizzarsi. Nel farlo, manterrebbe però intatte pretese incompatibili con le linee rosse ucraine ed europee, cercando di farle apparire ragionevoli ma sufficienti a garantire un fallimento negoziale da attribuire alle controparti. L’esito politico sarebbe verosimilmente un disimpegno dal dossier ucraino da parte di un Trump frustrato e risentito verso i vecchi alleati. A ciò potrebbe seguire la sospensione definitiva degli aiuti militari a Kyiv e, in definitiva, la rimozione del fattore USA dalla guerra: l’unico vero deterrente rispetto a una prosecuzione ancora più decisa della campagna militare russa. Il secondo scenario è che Putin non riesca a ipnotizzare Trump nel gioco di prestigio fra promesse e gesti simbolici. Il vertice produrrà probabilmente qualche risultato formale: il palcoscenico concesso da Trump deve essere ricompensato con qualcosa che brilli almeno davanti al suo pubblico, purché non sia nulla di autentico. Questo equilibrismo è il vero rischio che Putin accetta in cambio della piccola nuova Yalta da esibire al suo pubblico. Se Trump dovesse vedere il bluff, e peggio ancora se se ne sentisse offeso, la sua frustrazione potrebbe virare definitivamente verso il Cremlino. Potrebbe sfociare in ritorsioni economiche, dall’impatto incerto, o persino in una rinnovata determinazione a sostenere militarmente l’Ucraina, questo sì con effetti significativi al fronte. Soprattutto, questo esito inietterebbe momentaneamente nuova linfa nell’alleanza atlantica, riavvicinando le sue due sponde sul fronte del sostegno a Kyiv. Entrambi gli scenari gettano una triste luce sulla debolezza europea. Il primo ci ricorda come l’irrilevanza che Washington e Mosca attribuiscono al Vecchio continente renda un ipotetico accordo di Anchorage una prospettiva da temere più che da auspicare. Il secondo è un promemoria di quanto, nonostante la narrativa sulla Difesa europea fiorita nel risveglio post-trumpiano, la nostra postura di sicurezza resti ostaggio di una pericolosa sindrome dell’arto fantasma che rimanda a un’epoca passata. Anchorage non deciderà la guerra in Ucraina. Al massimo, guardando il vertice dalle loro capitali, i leader europei vi potrebbero scorgere riflesse le ragioni profonde della propria assenza. * L'autore è ceo di Highground, consultancy sul rischio politico
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