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Quel pallone pieno di speranza che rotola da Napoli a Gaza
Oggi 30-06-25, 05:14
Il campetto da calcio è sporco, pieno di fango, così tanto che non si riconoscono le maglie. Il pallone è sprofondato, i ragazzi vorrebbero continuare a giocare, ma non possono. E non capiscono nemmeno il perché. Può, quel fango, sconfiggere allegria e sorrisi? Evidentemente sì, senza spiegazioni. Il vocabolario dei bambini in pochissimo tempo si evolve, diventa più ricco ma di parole dure, toste, “da grandi”. C’è la guerra, si scappa, si corre via, mano nella mano con la mamma o il papà, che di nascosto magari piangono. Già, la guerra insegna ai bambini che le lacrime bagnano anche il viso degli adulti e dei supereroi. Come quello di Mohamed al Sultan, giovane allenatore dell'Al Haddaf Team, club di Bet Lahia, a nord di Gaza. Ha 23 anni, ma è già un uomo. In poco tempo ha insegnato ai suoi esterni a fuggire in dribbling, non più dai terzini, ma dalle bombe. Fino a un mese fa, quando lui e suo fratellino Bahaa, 14, calciatore della squadra, non ce l’hanno fatta a scappare dai bombardamenti di Israele. Ma il loro esempio non sarà dimenticato. Qualche mese prima a Napoli, un bambino, vedendo qualche video degli orrori della guerra in tv aveva fatto una domanda particolare al suo allenatore. “Ma quei ragazzi possono giocare a calcio?”. La risposta negativa ha fatto scattare qualcosa. Il luogo del dubbio era il centro del campetto dello Spartak San Gennaro, una squadra di Napoli che da anni accoglie ragazzi meno fortunati. “Cerchiamo di insegnare che tutti sono uguali – ci racconta Luigi Volpe, factotum dello Spartak – e che la vita non è fatta solo di favole. Ci sono realtà e contesti tosti, ma tutto cambia se a cambiare sono gli occhi con cui le guardi”. La squadra si allena al Filangeri, ex carcere, e i bambini si confrontano, crescono e provano – attraverso il gioco – a far uscire il sole anche dove ci sono solo nubi e tempeste. Da questo è nato un bellissimo ponte dell’amicizia. “I bambini ci hanno spronato a metterci in contatto con la squadra di Gaza: sono mesi che si scambiano video, foto, messaggi di speranza”. Anche attraverso gesti simbolici. A Napoli i ragazzi scendono in campo con la maglia “Tutte e' creature song eguale”, mentre quelli di Gaza hanno dipinto “Spartak San Gennaro” con la cenere delle loro case bombardate. Un collegamento meraviglioso, condito da una promessa: giocheremo insieme quando tutto sarà finito. Magari a Napoli. Un paio di settimane fa i bambini dello Spartak hanno voluto organizzare una giornata in ricordo di Mohamed e Bahaa. “Come si spiega la morte a un bambino? Così. È ovvio che è dura e che tutti vorremmo solo raccontare gli aspetti belli e allegri delle nostre esistenze, ma è un modo per insegnare ai piccoli come si affrontano le difficoltà e a… diventare grandi”. È una straordinaria storia di sport popolare, di rieducazione, in cui si impara a essere uniti. Si soffre e si combatte insieme, anche a distanza. Lo insegna anche il nome della squadra: Spartak San Gennaro, perché gli spartani erano combattenti duri e perché un aiuto da un santo laico e patrono della città può sempre far comodo. Vince il gioco, che non crea campioni, ma forma uomini. O meglio, crea campioni di civiltà. Migliora il cuore, più che la tecnica. A volte, da bambini, si gioca a fare la guerra: nei videogiochi, per strada, con le pistole d’acqua. Ridendo, abbracciandosi. Giustamente inconsapevoli, da bambini. Come fosse una partita di pallone. Ma se poi tutto diventa reale, cosa si può dire a un ragazzino che la guerra non l’ha mai vista, che l’odore delle armi non l’ha mai sentito? Allo Spartak provano a spiegare questo, più che insegnare diagonali difensive perfette o movimenti da punta. E gli occhi con cui Volpe ce lo racconta valgono più di mille parole. “Proviamo a far prendere coscienza ai ragazzi di quello che gli succede intorno, fargli toccare anche con mano quello che accade nel mondo”. L’empatia e l’amicizia sono il biglietto da visita mostrato con orgoglio e fermezza. Fratelli e tifosi di bambini che non conoscono, ma di cui percepiscono la sofferenza. Le storie dello Spartak e dell’Al Haddaf vanno avanti insieme, mano nella mano. La settimana scorsa si sono uniti nel ricordo dei loro amici, morti sotto le bombe di Israele. È stata una festa, non un funerale. E sul ponte dell’amicizia rotolava il pallone, collante di popoli.
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