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Barghouti al centro dei negoziati tra Israele e Hamas. Chi non vuole il suo rilascio
Oggi 07-10-25, 10:23
La questione del rilascio di Marwan Barghouti è tornata al centro del dibattito politico israeliano e palestinese, mentre al vertice di Sharm el-Sheikh proseguono i negoziati per una tregua a Gaza e per un possibile scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi. Come riportato dal quotidiano “la Repubblica”, il nome di Barghouti figura ai primi posti delle liste presentate da Hamas, insieme a quello di Ahmad Saadat, leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Il suo è un nome che divide. Per molti palestinesi Barghouti rappresenta un simbolo di resistenza e unità nazionale; per Israele è invece il volto di una stagione di sangue. Condannato a cinque ergastoli per il suo coinvolgimento in diversi attentati durante la Seconda Intifada, il leader di Fatah è detenuto da oltre vent'anni in una prigione israeliana. Secondo “The Economist”, che un anno fa lo ha definito “il prigioniero più importante del mondo”, Barghouti resta l'unico dirigente palestinese in grado di unire le diverse anime del fronte anti-israeliano: da Fatah a Hamas, passando per le frange più radicali. A Ramallah lo chiamano “il Mandela palestinese”, un paragone che molti ritengono eccessivo, ma che rende bene l'idea del suo carisma. Proprio per questo, l'estrema destra israeliana considera il suo rilascio una minaccia diretta. Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza nazionale, ha visitato Barghouti lo scorso agosto, presentandosi alle telecamere come garante della linea dura del governo. L'uomo, raccontano fonti israeliane, è apparso provato e dimagrito, ma continua a esercitare un forte ascendente sulla popolazione palestinese. Benjamin Netanyahu, stretto tra la pressione degli alleati di governo e quella degli apparati di sicurezza, avrebbe assicurato a Ben Gvir e a Bezalel Smotrich che figure considerate “simboli del terrore” non saranno liberate. È quanto ha riferito il canale televisivo israeliano “Channel 14”, secondo cui il premier non intende concedere a Hamas una vittoria simbolica che potrebbe rafforzarne la popolarità nel mondo arabo. Un'ipotesi più sfumata, tuttavia, è stata lasciata aperta dal ministro dell'Agricoltura Avi Dichter, ex capo dello Shin Bet. Intervistato da “Channel 12”, ha ricordato che “Israele in passato ha liberato detenuti condannati per terrorismo, ma mai gli autori diretti di massacri contro civili israeliani”. In altre parole, una via d'uscita diplomatica non è esclusa, purché non coinvolga i responsabili degli attacchi del 7 ottobre. Dietro le quinte, secondo “la Repubblica”, Ankara e Doha starebbero facendo pressioni per inserire Barghouti nello scambio, ipotizzando anche una soluzione intermedia: la scarcerazione seguita da un esilio in un Paese terzo. L'idea troverebbe però la contrarietà di diversi governi arabi, timorosi che un suo ritorno sulla scena politica destabilizzi ulteriormente l'Autorità Nazionale Palestinese guidata da Abu Mazen, già screditata e priva di reale consenso interno. Nato nel 1959 nel villaggio di Qubar, vicino a Ramallah, Barghouti entrò giovanissimo nelle file di Fatah, di cui divenne presto uno dei leader più influenti durante le Intifade. Arrestato più volte, è stato condannato a cinque ergastoli in processi che la sua famiglia e diversi osservatori internazionali hanno definito “non equi né trasparenti”. Nei sondaggi condotti nei Territori palestinesi continua a risultare il politico più popolare, superando nettamente sia i dirigenti di Hamas sia quelli dell'Anp. Per Hamas, inserire Barghouti tra i prigionieri da scambiare avrebbe un duplice valore: liberare un simbolo nazionale e mettere in difficoltà il governo israeliano, spaccando la coalizione di Netanyahu tra falchi e pragmatici. Per Israele, al contrario, significherebbe restituire alla politica palestinese un leader in grado di catalizzare un consenso trasversale, rendendo più complesso qualunque scenario postbellico nella Striscia e in Cisgiordania. Netanyahu, per il momento, sembra non intenda cedere. Il premier sa che un eventuale rilascio del “Mandela palestinese” potrebbe costargli caro politicamente, aprendo la strada a nuove tensioni interne e rafforzando i suoi oppositori di destra. Barghouti, da parte sua, resta in cella: silenzioso, ma ancora al centro della storia mediorientale.
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