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Cara sinistra, ecco perché sbagli su Firenze: la cultura non è proprietà privata
Oggi 22-06-25, 12:53
C'è un momento, nella vita politica di una comunità, in cui anche l'indignazione dovrebbe saper indossare abiti decenti. Perché se l'indignazione si fa lamento e il lamento si trasforma in piagnisteo, allora smette di essere denuncia e diventa rumore di fondo. Ecco, è esattamente qui che si trova oggi una parte importante della sinistra italiana: in una crisi emotiva che somiglia più a uno sfogo isterico che a una riflessione seria. A dare voce – e penna – a questo disagio è Massimo Giannini su Repubblica, che ieri con tono fustigante accusa il governo di smantellare la cultura italiana. I due casi che lo mandano su tutte le furie sono noti: da una parte il finanziamento pubblico concesso a una società collegata all'autore del pluriomicidio di Villa Pamphili, società che avrebbe dovuto produrre un film mai realizzato. Dall'altra il declassamento del teatro della Pergola di Firenze, diretto da Stefano Massini, autore di successo e simbolo culturale della sinistra tout court. Ma siamo sicuri che queste due vicende raccontino davvero la «notte della cultura», come vorrebbe farci credere Giannini? Non sarà, piuttosto, che siamo di fronte a due clamorosi autogol della sinistra medesima? Sul caso del film fantasma finanziato con fondi pubblici, la verità è brutale nella sua semplicità: se non ci fosse stato quel terribile fatto di cronaca, nessuno avrebbe sollevato la questione. Il vaso di Pandora si è rotto per puro caso, ma il suo contenuto riguarda ben altro rispetto all'omicida. Riguarda, piuttosto, un sistema di finanziamento pubblico al cinema che da anni sfugge a controlli seri, con criteri opachi e progetti spesso inconsistenti. L'indignazione di Giannini è rivolta al governo attuale, ma a ben vedere chi dovrebbe arrossire sono coloro che quel sistema l'hanno costruito, protetto e alimentato. Cioè, la sinistra culturale e politica che oggi grida allo scandalo. E poi c'è il caso della Pergola. Il teatro di Firenze perde lo status di Teatro Nazionale non per una vendetta politica o una rappresaglia ideologica, ma per ragioni squisitamente tecniche. Il progetto triennale presentato dalla Fondazione non ha superato i parametri previsti dal decreto ministeriale: punteggio troppo basso, contenuti giudicati deboli, mancanza di dettagli sufficienti. Lo hanno spiegato con chiarezza i membri della commissione che ha valutato il dossier. Ma c'è di più, me lo ricorda Giampiero Beltotto, che nel 2017 si trova nell'identica situazione di Massini oggi: declassamento del Teatro Stabile del Veneto. A quel punto Beltotto va dal ministro dell'epoca (Dario Franceschini) che gli spiega di non poter intervenire, poiché la commissione è tecnica e del tutto autonoma nelle decisioni. Certo, Massini è un autore noto e capace. Ma la gestione di un teatro pubblico non può fondarsi solo sul prestigio del direttore artistico. Deve seguire regole, numeri, risultati. Non bastano i meriti passati, serve una struttura che regga oggi e guardi avanti. La cultura, quando è cultura davvero, non ha paura della trasparenza. E allora, caro Giannini e cara sinistra (vedova inconsolabile e straziata dalla lontananza dal potere): perché la Commissione è tecnica se il Ministro è Franceschini ma non lo è se il Ministro è Alessandro Giuli? Il punto, evidentemente, è un altro. C'è una parte della sinistra – quella salottiera, autoreferenziale, abituata a dare lezioni al mondo – che fatica ad accettare un principio basilare: la cultura non è (sua) proprietà privata. E neanche zona franca da ogni valutazione. I fondi pubblici non sono premi fedeltà, e l'arte – se davvero ha valore – non ha bisogno di protezione ideologica.
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