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Cari Albanese & Co. Il vero problema sono i palestinesi
Oggi 06-10-25, 08:03
Occorre dire la verità, soprattutto quando è spiacevole, urticante, opposta al «politically correct». In Italia e in Europa la piazza è sempre pronta a gridare «Free Palestine», con slogan ripetuti come un disco rotto, secondo un rito che fa di Francesca Albanese (e tutti quelli che la pensano come lei) figure di riferimento. Ma la verità che pochi osano dire — e che tutti gli addetti ai lavori seri conoscono — è che il problema principale sta dentro la politica palestinese, dentro il popolo palestinese: divisioni, violenze e l'incapacità totale, ripetuta e criminale di costruire una classe dirigente orientata alla pace. Gli Accordi di Oslo, firmati nel 1993 con la mediazione di Bill Clinton, furono un'occasione storica. Yitzhak Rabin e Shimon Peres portarono Israele a riconoscere l'OLP come interlocutore legittimo. Yasser Arafat firmò a sua volta impegnandosi al riconoscimento di Israele e all'avvio di un'autonomia palestinese in Cisgiordania e Gaza, con un'Autorità Palestinese eletta e progressivo ritiro dell'esercito israeliano. I temi più difficili — Gerusalemme, rifugiati, confini definitivi — sarebbero stati negoziati entro cinque anni. Insomma, la strada verso due Stati fianco a fianco. Ma Arafat, invece di trasformare la firma in un progetto reale, scelse la via del rinvio, dell'ambiguità e, all'ultimo, del "no". Fu la prima occasione storica gettata alle ortiche. Poi arrivò il 2006. Le elezioni legislative a Gaza consegnarono la vittoria a Hamas e il suo leader Ismail Haniyeh diventò primo ministro: l'inizio di un pluralismo difficile ma possibile. Invece fu l'inizio del disastro definitivo: nel 2007 Hamas prese il controllo della Striscia con le armi, eliminando fisicamente gli oppositori di Fatah, incarcerando, torturando e uccidendo chiunque osasse resistere. Gaza non divenne mai laboratorio di autogoverno, ma roccaforte armata, alleata dell'Iran e di Hezbollah, ossessionata dalla guerra. Basta guardare alla condizione dei palestinesi nei Paesi vicini per capire che il problema non è Israele, ma l'assenza di una guida credibile. In Egitto, oltre centomila persone arrivate dal valico di Rafah dopo il 2023 vivono senza status, senza residenza, senza diritti. La legge sull'asilo firmata da al-Sisi nel dicembre 2024 li ha messi ulteriormente all'angolo: chi non presenta domanda entro 45 giorni rischia detenzione e rimpatrio. In Libano, mezzo milione di rifugiati è confinato in dodici campi, senza proprietà né accesso a decine di professioni, con il 93% in povertà estrema. In Giordania, dove oltre due milioni di palestinesi hanno ottenuto cittadinanza e un relativo inserimento, resta comunque una quota significativa senza diritti pieni, limitata a lavori precari e a mobilità ridotta. In Siria la caduta di Assad a fine 2024 ha cambiato poco: il nuovo regime di Al-Shara ha imposto lo scioglimento delle milizie palestinesi, profanato tombe dei leader (tipo Jibril e Yarmouk) e iniziato a trattarli come “residenti stranieri” invece di "siriano-palestinesi", con documenti che li bollano come “foreigner” e zero diritti politici (parliamo di 400.000 persone secondo le ultime stime disponibili). Quattro realtà che smontano la favola dic hi riempie le piazze occidentali. Il problema palestinese non si chiama Israele: si chiama incapacità politica, scelte sbagliate, logica di guerra. I Paesi arabi non li trattano da fratelli ma da peso; i leader palestinesi hanno trasformato ogni occasione in un fallimento. Eppure, in Europa si continua a gridare parole vuote. Nessuno ricorda Oslo, nessuno dice che Arafat ha buttato via la prima occasione storica, nessuno sottolinea che Hamas ha trasformato la vittoria elettorale in un colpo di Stato sanguinoso. I palestinesi sono il peggior nemico di sé stessi. E non da ora, ma da sempre.
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