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Donato Bilancia, il killer dei treni che gettò l'Italia nel terrore
Oggi 26-08-25, 12:55
Il nome di Donato Bilancia evoca ancora oggi un'ombra cupa sulla cronaca nera italiana. Il suo ciclo omicida, scatenato tra il 1997 e il 1998, segnò un'epoca di paura, spaesamento e incapacità collettiva di comprenderne le ragioni. Bilancia, piccolo uomo dalla vita anonima, riuscì a terrorizzare il Nord Italia con una serie di feroci delitti, mettendo a dura prova la fiducia dell'opinione pubblica nella sicurezza e nelle istituzioni, anche a causa dell'apparente casualità delle sue vittime. Originario di Potenza, ma cresciuto a Genova tra difficoltà familiari, dipendenze dal gioco e una cronica instabilità personale, Bilancia trovò nella morte violenta un macabro, ripetitivo rituale. In poco più di sei mesi, tra ottobre '97 e aprile '98, dette corso a una drammatica sequenza di diciassette omicidi commessi tra Liguria, Piemonte, Lombardia ed Emilia, passando in modo disinvolto da vittime maschili a femminili, senza uno schema netto, se non quello dell'estrema brutalità e rapidità d'azione. La svolta criminale di Bilancia si manifestò come una reazione rabbiosa e autodistruttiva alle sconfitte personali. Iniziò uccidendo un amico, Bobbio, per vendetta legata a truffe e debiti di gioco; da lì in avanti, il killer si mosse tra rapine, regolamenti di conti con allibratori clandestini e, soprattutto, incursioni efferate nei convogli ferroviari. Nei mesi più caldi della sua attività criminale, Bilancia colpì le sue vittime predestinate tra compartimenti riservati e scompartimenti di prima classe—prevalentemente donne, molte delle quali sorprese sole, nella salva apparente tranquillità dei treni Intercity. Le modalità erano fredde: colpo alla tempia, fuga silenziosa, nessuna pietà né apprezzabile movente se non il desiderio di denaro o di affermare il suo arbitrio sulla vita degli altri. La polizia brancolò a lungo nel buio, ipotizzando inizialmente una guerra tra bande del gioco d'azzardo. Solo con la ripetizione degli omicidi “insensati” — soprattutto sui treni — si iniziò a delineare il profilo di un serial killer. Un dettaglio tradì la sua mano: il bossolo lasciato sulla scena di un crimine, incompatibile con le armi standard. Da quel particolare partì la lunga caccia che coinvolse decine di procure, incroci di impronte digitali, osservazione di abitudini e movimenti di quanti frequentavano i casinò italiani. Le indagini sfociarono infine in un pedinamento e arresto clamoroso, quando Bilancia fu sorpreso ad armeggiare con pistole e guanti in auto. Al processo, Donato Bilancia confessò quasi tutti gli omicidi, mostrando una lucidità gelida e una totale assenza di rimorso. Il suo racconto svelò la deriva di un uomo consumato dall'ossessione del gioco e della vendetta, incapace di gestire la propria rabbia e solitudine. Condannato all'ergastolo, morì in carcere nel 2020, portando con sé il mistero di alcune scelte e una freddezza rimasta inspiegabile per molti criminologi. Il caso Bilancia, nella sua efferatezza, cambiò per sempre il modo in cui gli italiani percepirono la sicurezza in luoghi pubblici. Il treno—un tempo simbolo di libertà e mobilità—divenne teatro di paure e sospetti, ricordando a chiunque quanto sottile possa essere il confine tra la normalità e l'abisso. Omicidio Lidia Macchi: il mistero che ha spezzato l'innocenza di un'epoca Era il 5 gennaio 1987 quando Lidia Macchi, brillante studentessa di Giurisprudenza ventunenne, salutava i suoi nel quartiere di Casbeno a Varese per andare a trovare un'amica ricoverata all'ospedale di Cittiglio. Promette di rientrare per cena, ma quella sera non farà mai ritorno a casa. Da quel momento si perde ogni traccia: la famiglia e gli amici iniziano a cercarla, mentre l'ansia cresce con il passare delle ore. Il 7 gennaio il drammatico epilogo: tre amici della ragazza, impegnati nelle ricerche con altri membri di Comunione e Liberazione – il movimento a cui Lidia apparteneva e che tanto aveva segnato la sua formazione umana e spirituale – ritrovano la sua Fiat Panda nelle campagne di Sass Pinì, vicino alla ferrovia di Cittiglio. A pochi metri, esanime, c'è il corpo di Lidia, coperto da un cartone: è stata colpita da 29 coltellate, segno di una furia insensata. Autopsia e rilievi rilevano anche una violenza sessuale: per la ragazza, figlia di una famiglia molto religiosa, quello sarebbe stato il primo rapporto, vissuto nel terrore e nel dolore. Per la famiglia Macchi e la piccola comunità il colpo è devastante. L'immagine di Lidia – mite, studiosa, impegnata nel volontariato – stride brutalmente con la brutalità del delitto. L'Italia si interroga: chi poteva odiare tanto una giovane senza ombre? Mentre la stampa diffonde la notizia, fioccano sospetti, indizi, false piste. Il funerale raccolse centinaia di persone in lacrime, mentre tra corone di fiori e applausi scroscianti, arrivava una lettera anonima indirizzata ai genitori: una poesia crudele, in cui la vittima veniva chiamata “agnello sacrificale”. Le indagini fin da subito si polarizzano: i carabinieri seguono la pista del maniaco, la polizia si concentra sulla cerchia stretta di amici e conoscenti. Negli anni, il “caso Macchi” è diventato uno dei misteri irrisolti più sconcertanti della cronaca italiana. Diversi i sospettati. Per un certo periodo l'attenzione ricade su Giuseppe Piccolomo, già condannato all'ergastolo per altri omicidi, la cui casa dista solo poche centinaia di metri dalla scena del crimine. Ma anche questa pista, come tante altre, si rivela inconsistente: prove insufficienti, voci, supposizioni e nessuna certezza. Nel 2016, dopo quasi trent'anni, viene arrestato Stefano Binda, amico di Lidia e intellettuale introverso orbitante negli stessi ambienti della vittima, accusato anche per via della famigerata poesia. Il processo si apre sull'onda dell'emozione, scetticismi e polemiche. In primo grado viene condannato all'ergastolo, ma in Appello e infine in Cassazione verrà pienamente assolto, anche grazie a un alibi e soprattutto all'assenza di prove scientifiche: il DNA trovato sulla salma non era suo. Dopo oltre tre anni di detenzione, Binda ottiene un indennizzo per ingiusta carcerazione. Oggi, a quasi quattro decenni dalla morte di Lidia Macchi, nessuno ha mai pagato per la sua morte. Restano le domande di una famiglia spezzata, il dolore dei tanti amici, un procedimento giudiziario intrecciato a errori e omissioni, e la profonda ferita di un mistero che continua a tormentare la memoria collettiva italiana Il racconto della cronaca nera e dei casi irrisolti si rinnova ogni giorno su Canale 122 – Fatti di nera, che offre un palinsesto dedicato 24 ore su 24. Per chi preferisce scegliere quando e come seguire i programmi, la piattaforma cusanomediaplay.it mette a disposizione lo streaming on demand, garantendo un accesso flessibile e completo.
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