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Hedda di Nia DaCosta. Da dramma ibseniano a incubo di bellezza e dominio
Oggi 06-11-25, 10:11
C'è qualcosa di velenoso nella bellezza calligrafica di Hedda. Mettete da parte Ibsen e lasciatevi trascinare in un sogno oppressivo, sospeso tra psicodramma e opulenti abiti da ballo. Hedda, l'ultimo film di Nia DaCosta, già nota per Candyman e The Marvels e disponibile su Prime Video dal 29 ottobre, è una rilettura audace e sensuale della pièce ottocentesca di Henrik Ibsen. DaCosta non si limita a trasporre il testo teatrale, ma lo reinventa, innestandovi i temi e le ossessioni del contemporaneo. Il risultato è un film sontuoso e disturbante, che osa reinterpretare un mito con occhi nuovi, anche se non sempre riesce a mantenere l'equilibrio tra le sue molte anime. La regista newyorkese cambia tutto: tempo, spazio, genere e sguardo. L'Oslo borghese di fine Ottocento diventa un'Inghilterra anni '50 che profuma di gin e polvere da sparo. Il dramma domestico si trasforma in un ricevimento claustrofobico, dove ogni gesto è una mossa strategica, ogni sorriso una maschera. Fin dalla prima sequenza, un piano fisso su Hedda che osserva il proprio riflesso in uno specchio, è chiaro che non siamo di fronte a un semplice adattamento, ma a un esperimento visivo e psicologico sul potere delle apparenze. La vicenda si svolge in una magnifica tenuta di campagna, dove Hedda e il marito George Tesman, giovane accademico di buona famiglia, preparano una festa perfetta per consolidare la loro immagine sociale. Ma la magnifica dimora è un sogno ipotecato, e dietro la facciata scintillante si nascondono debiti, ambizioni e frustrazioni. Quando la rivale di George per una cattedra universitaria si rivela essere Eileen Lovborg, ex amante di Hedda, la donna decide di orchestrare un piano diabolico per riaffermare il proprio controllo sul mondo che la respinge. La festa “organizzata sui gusti particolari di Hedda” è il manifesto del suo carattere: niente fiori, solo champagne e un disordine attentamente studiato. È l'affermazione di un potere che altrove le è negato: nel matrimonio, nella società, nel colore della sua pelle. DaCosta immagina infatti una Hedda nera in un ambiente bianco e aristocratico, costantemente sotto lo sguardo del giudizio e della curiosità altrui. L'attrice Tessa Thompson firma qui una delle interpretazioni più complesse della sua carriera. La sua Hedda è elegante e spietata, ironica e fragile: ogni parola è un atto politico, ogni sguardo un duello. Non è la Hedda nevrotica di Glenda Jackson (nel film del 1975), vittima del conformismo e della propria lucidità, né la femme fatale ibseniana da manuale. È una donna che ha imparato a sopravvivere recitando, e la tragedia più profonda è che non sa più smettere. Nel suo volto convivono lucidità e sensualità: è ambigua, controllata, insieme carnefice e prigioniera del proprio desiderio di potere. Il cast è un punto di forza decisivo. Thompson e Nina Hoss danno vita a un duello raffinato e doloroso, mentre la fotografia di Sean Bobbitt costruisce un universo visivo fatto di luci lattiginose, ori soffocanti e ombre che divorano i corridoi. Ogni ambiente è bellissimo e insostenibile allo stesso tempo. Il ritmo alterna lentezze ipnotiche a improvvise accelerazioni: un valzer che si trasforma in vertigine. La colonna sonora jazz accompagna la distruzione come un rituale mondano, fino a un finale che esplode in un'eleganza terminale. Non tutto funziona. A tratti Hedda indulge nel manierismo, il simbolismo si fa pesante, e alcune scelte narrative come la trasformazione in chiave femminile del personaggio di Lovborg, sembrano più tese a sorprendere che a rivelare. L'intento di raccontare l'emancipazione femminile in un'epoca che relegava le donne al silenzio è chiaro e potente, ma il film a volte si perde in sséstesso, tra ripetizioni e passaggi confusi che disorientano lo spettatore. Eppure, quando Hedda trova il suo ritmo nei silenzi, nei primi piani, nella musica che si interrompe improvvisamente, diventa ipnotico. È un film che ti respinge mentre ti affascina, e in questo contrasto trova la sua verità più profonda: quella di una donna che cerca libertà attraverso il controllo, e finisce prigioniera della propria immagine.
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