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"Le scarpe dei poveri puzzano", e i sindacati censurano l'opera d'arte
Oggi 01-07-25, 15:10
Sono stati davvero pochissimi i fortunati che hanno potuto emozionarsi davanti all'impressionante installazione «Picco di memoria» realizzata dall'artista turco di origine curda Ahmet Günestekin con centinaia di scarpe di gomma nera calzate da persone povere, donne, anziani, bambini, lavoratori. L'opera struggente era stata appena allestita alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea di Roma in preparazione della sua mostra «Yoktunuz (Eravate assenti)» che apre oggi al pubblico, a cura di Sergio Risaliti e Paola Marino con la preziosa collaborazione di Angelo Bucarelli. E la sua forza era data anche da quell'odore forte, ma non insopportabile, che emanava dalle scarpette di gomma e che portava con sé la puzza (si può dire?) della sofferenza e della povertà, di gambe e piedi che hanno magari marciato per chilometri e chilometri senza cibo né acqua. Un'opera di una potenza esemplare, soprattutto per noi occidentali benestanti e ormai anaffettivi, viziati, indifferenti a tutto, abituati a cenare con il sottofondo di immagini di guerre e stragi trasmesse dai telegiornali. Ebbene, oggi la mostra apre al pubblico ma quell'opera non ci sarà, è stata rimossa dall'artista stesso, avvilito e mortificato dalle rimostranze di alcune rappresentanze sindacali (Cgil, Cisl e Uil) del personale di custodia che hanno scritto una lettera alla coraggiosa Direttrice della GNAMC, Renata Cristina Mazzantini, lamentando «un odore acre e pungente che sta rendendo insopportabile la permanenza. I lavoratori assegnati a sorvegliare quelle zone lamentano mal di testa e sensazione di nausea». A nulla è servita la proposta di mettere in atto una turnazione più frequente del personale di custodia nella sala con l'opera così come non è servita un'accorata spiegazione dell'artista che ha illustrato il vissuto di sofferenza e sfruttamento portato con sé da «Picco di memoria»: «Quest'opera parla di tutti noi e anche di voi o magari di vostri conoscenti o parenti o antenati». Un giornalone radical chic ci ha messo il carico da novanta diffondendo la notizia falsa che perfino i visitatori del museo erano costretti a indossare le mascherine per la puzza insopportabile. Il risultato? Günestekin, artista grande quanto sensibile, ha deciso di ritirare l'opera per non offendere i lavoratori addirittura nauseati, pur specificando che «Picco di memoria» era stata esposta in altre cinque occasioni e nessuno si era lamentato. Possibile che solo a Roma qualcuno del personale di custodia abbia la «puzza al naso» come i radical chic? Alla fine, essendo resiliente e pieno di forza immaginativa, l'artista turco ha messo una parte delle scarpette in alcuni sacchi che servono da custodie sottovuoto, ci ha messo sopra delle mascherine per le anime gentili che dovessero sentire ancora un residuo di puzza e ha disposto tutto in cerchio con al centro due paia di scarpine soltanto, quelle di una madre e di suo figlio. «Ma se qualcuno dovesse sentire ancora puzza, le toglierò», ha detto rammaricato. Inoltre ha realizzato in un batter d'occhio quattro opere fotografiche su «Picco di memoria». Sia come sia, la mostra è intensa ed emozionante. Nel dialogo continuo fra la collezione della GNAMC e le opere polifoniche di Günestekin lascia ad esempio senza fiato l'incontro/scontro fra il colossale «Ercole e Lica» in marmo bianco di Antonio Canova, pieno di tensione e violenza, e l'impressionante installazione «Yoktunuz», nera, enorme e composta da centinaia di oggetti quotidiani (bambole, pentole, pezzi di automobili fracassate, ecc.) raccolti tra le macerie di case distrutte dalla guerra o dal terremoto. Günestekin sa formalizzare la memoria, il retaggio di miti antichissimi, il dolore, ma sa donare anche speranza come si vede in alcuni grandi dipinti coloratissimi e realizzati a olio su antiche porte in legno recuperate, con motivi geometrici, fiori e volti, che sono le soglie per entrare in una dimensione metafisica e spirituale, sono le «porte regali» di cui parlava un grande filosofo come Pavel Florenskij ma anche le messaggere di un incanto simile a quello che si prova ammirando il blu profondissimo della Porta di Ištar, costruita dal re babilonese Nabucodonosor II nel 575 a.C. Il passato si fa presente senza soluzione di continuità, fra dolore e speranza.
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Il Manifesto
