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Non era amore, era femminicidio. Ora la legge lo dice
Ieri 24-07-25, 10:30
La legge approvata al Senato punisce chi cancella la libertà e la vita di una donna per odio o controllo. È giustizia, è memoria, è civiltà. C'è un momento, nel dolore di un Paese, in cui le parole non bastano più. Le cronache parlano chiaro: troppe donne uccise, spesso per mano di chi diceva di amarle. Uccise perché volevano andarsene. Perché volevano vivere libere. Perché volevano essere loro stesse. Ora, con l'approvazione al Senato del ddl sul femminicidio e l'introduzione dell'articolo 577-bis del codice penale, l'Italia finalmente dice: basta. Finalmente lo dice con la forza della legge. Uccidere una donna perché è donna è un crimine che grida vendetta, è un attacco alla libertà, è un'offesa alla nostra stessa umanità. Il nuovo articolo punisce con l'ergastolo chiunque provochi la morte di una donna commettendo il fatto con atti di discriminazione o di odio verso la vittima in quanto donna, ovvero qualora il fatto di reato sia volto a reprimere l'esercizio dei diritti, delle libertà ovvero della personalità della donna. L'Italia si allinea così a molti altri ordinamenti internazionali che già prevedono il reato specifico di femminicidio. Dare un nome proprio a questo crimine è un atto potente: significa vedere e riconoscere la radice sessista della violenza. Significa uscire dalla zona grigia in cui ogni delitto può essere relativizzato, giustificato, ridotto a fatto privato. Qualcuno dirà: “Ma una legge non ferma le mani di un assassino”. Ed è vero: nessuna legge può bastare da sola a sradicare il patriarcato e la cultura del possesso. Ma ogni legge è anche un messaggio, uno specchio dei valori che una società vuole difendere. Rafforza la rete della tutela preventiva, e rende la pena più proporzionata alla violenza commessa. Tutto questo può essere l'inizio di una rivoluzione culturale e giuridica che deve continuare. Con l'educazione nelle scuole, con la formazione degli operatori, con il sostegno concreto alle vittime, con politiche strutturate contro la violenza di genere. Oggi questo articolo ha molti nomi. Si chiama Giulia, che voleva costruirsi una vita diversa. Si chiama Saman, che rivendicava il diritto di scegliere chi amare. Si chiama Valentina, Chiara, Rossella, Lucia, Daniela…Donne diverse, età diverse, sogni diversi. Ma tutte con lo stesso destino tragico: essere uccise perché la loro libertà era diventata intollerabile. A loro, oggi, dobbiamo qualcosa che va oltre le lacrime. È un abbraccio collettivo a tutte loro, a tutte le madri, sorelle, amiche, figlie che ogni giorno combattono contro la paura, contro l'indifferenza, contro il silenzio. È dire a voce alta che la vita di una donna non vale meno di un onore ferito. Che nessuno ha diritto di decidere per lei, né con la forza, né con la violenza, né con la morte. È dire alle sopravvissute: non siete sole. È dire ai violenti: non ci sarà più impunità. È un primo passo. Ma è un passo enorme. È il segno che lo Stato c'è. Che la giustizia c'è. Che non chiuderemo più gli occhi. In nome di tutte. Perché nessuna più debba morire per essere semplicemente donna.
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