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Cronaca Milano
Da ebrea vi dico: questa non è più la mia Milano
Oggi 13-11-25, 09:17
Milano è la mia città.Ci sono nata e qui sono nati i miei figli.Non ho mai pensato né voluto lasciarla, ricordo che ogni volta che le nostre intricatissime vicende familiari prospettavano un possibile trasferimento era la disperazione.La mia Milano era quella del cinema Gloria con una sala sola e i poster dei vecchi film su tutte le pareti, della pizzeria da Gino che fino ad oggi ha quell’inconfondibile profumo, del tram 24 che ci portava a scuola con la nebbia, che ai tempi era quella vera e fitta. E in piazzale Segesta poi, che era quasi periferia, non vedevi proprio nulla. Era la Milano dei paninari e del Moncler e le calze Burlington, e noi che non potevano permetterceli ci sentivamo in una sorta di limbo: avremmo voluto ma in fondo anche no. In tutto questo c’era il mio essere ebrea, con quel nome e quel cognome che erano strani persino al Lycée Français. I miei genitori, scappati lui dal Cairo e lei da Aleppo, volevano che io e mio fratello mantenessimo la lingua e la cultura francese che si studiavano allora nei paesi arabi e scelsero questa grande scuola internazionale.Eravamo in tanti e stavamo bene. Ogni tanto ci assentavamo per una festività ed eravamo esentati dall’ora di religione, ma tutto si svolgeva in grande serenità.Ricordo però che a volte, quando incontravamo quelli delle altre scuole, quelli con le moto potenti, il desiderio più grande era di essere più normale, più come gli altri. In fondo ero solo una ragazzina. La mia non era una famiglia religiosa; persi mio padre a 9 anni e da quel momento cercammo di mantenere le tradizioni. A Kippur si digiunava e si andava a piedi al tempio maggiore, in centro, il Seder di Pesach dallo zio Salmo, e poco più. Non ricordo di aver mai avuto paura, ma so che mia madre la mezuza fuori dalla porta non la voleva mettere. Negli anni gli episodi di intolleranza, però, ci sono stati. Si manifestavano a ondate. Le guerre di Israele mi trovarono bambina, avevo invece 15 anni quando morì il piccolo Stefano Gaj Taché a Roma, un anno prima avevo assistito in diretta alla morte di Sadat e tutti dicevano che era successo perché aveva fatto la pace con noi.In estate passavamo vacanze meravigliose a Tel Aviv con mia zia e i miei due cugini; aveva insegnato loro il francese per poter parlare con noi, la loro vita mi affascinava, andavano a scuola da soli, sembravano molto più liberi di noi. Le ore a nuotare, la pita calda, e i cetrioli piccoli, i film che da loro sono sempre stati in lingua originale e i miei Nonni, che avevano lasciato l’Italia per invecchiare nella calda terra promessa. Io però ero milanese. E lo sono rimasta. La vita mi ha portata ad avvicinarmi sempre più alla comunità ebraica che avevo frequentato poco fino ai vent’anni; ho sposato un uomo osservante, sono coinvolta con grande dedizione nelle attività istituzionali, in particolare nella scuola. Ho sempre seguito con apprensione i momenti di tensione e i conflitti che riguardavano Israele, senza mai pensare di non essere io stessa al sicuro. Fino al 7 ottobre. Da quel giorno mi sono sentita più ebrea che mai, più israeliana che mai; indosso simboli ebraici e non nascondo mai ciò che sono. Al contrario, lo rivendico con fierezza e con un filo di provocazione. Ma devo dirlo. Dentro ci sto male. Non mi sento a casa. Non mi sento voluta. Mi sento quella strana che va in Israele dove c’è la guerra, quella terra intrisa di sangue e dubbi. Gli episodi di antisemitismo si susseguono, da dopo la tregua sembrano addirittura aumentati. Sputi, insulti, occhiatacce, svastiche, vandalismo, aggressioni, pestaggi, intimidazioni, affissioni, proibizioni, urla, proteste, manifestazioni. Tutti che fanno finta di indignarsi e poi non cambia mai nulla. Non voglio essere retorica e dire che questa non è più la mia Milano. Penso che si sia semplicemente trovato il pretesto per far affiorare ciò che non è mai stato debellato realmente, né a Milano né altrove. L’odio per l’ebreo in quanto tale. *Assessore alla scuola Comunità ebraica di Milano
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