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Ecco le immagini horror che la sinistra minimizza: guardate e non perdonate
31-08-2025, 11:22
Guardatelo, l’orrore dimenticato. Di più, sminuito, scientemente rimosso, infine negato («il 7 ottobre è una cazzata», ha detto un mestierante televisivo che ha avuto un qualche successo negli anni Novanta, ma il dramma è che pressoché l’intera classe intellettuale utilizza il suo vocabolario). E invece non ce la fate, non è cancellabile. Perché l’orrore è corpo straziato, lamento inconsolabile, irruzione della morte nella quotidianità, il controsenso di una bomba a mano lanciata tra il salotto e il canestro. Guardatele le immagini del 7 ottobre, guardatele «voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case», avrebbe detto Primo Levi, perché quel giorno immondo è stato proprio questo: le tiepide case trasformate in macello. [[ge:kolumbus:liberoquotidiano:43925429]] Guardate soprattutto questi nuovi fotogrammi diffusi dal governo israeliano, perché scomodano l’infanzia violata in eterno per la sola colpa di essere infanzia di ebrei, sembra un’eco dei primi anni Quaranta, è l’antefatto della cronaca di questi giorni. Queste immagini sono state girate dalle telecamere di sicurezza del kibbutz della famiglia di Sabine Tasaa, che quel giorno dannato perse il marito Gil e il figlio diciassettenne Or, inghiottiti dall’orrore e uccisi due volte dal mainstream “progressista” (alleato oggettivo degli assassini oscurantisti di Hamas) che non vuole né nominarli né sentirli nominare, sono i morti sbagliati. Immagini per stomaci forti, vorrebbe la vulgata, ma il punto non sono le nostre viscere, il punto è che è la contemporaneità ad essere stomachevole, perché ha sdoganato di nuovo il pogrom, quella cosa su cui una volta l’anno, nel Giorno della Memoria intermittente, le anime belle sproloquiano “mai più”. E invece, è (ri)successo. [[ge:kolumbus:liberoquotidiano:43925430]] E invece li potete vedere, il padre che non c’è più che corre disperatamente attraverso il giardinetto urlando «State giù!», un figlio in braccio, l’altro subito dietro. Si rintanano in una stanza esterna, un nascondiglio inverosimile, la belva col mitra in mano ci scaraventa dentro una bomba a mano. Una bomba a mano contro i corpicini serrati al padre, non è nemmeno vigliaccheria, è l’atto che scavalca la parola, non è raccontabile. I bimbi escono, imbrattati di sangue, il “combattente” di Hamas (ci sono giornaloni che li chiamano davvero così, queste sottocreature infernali) li spintona, gli abbaia addosso, poi si mette compiaciuto a girare per la casa, inscenando una blasfema normalità. «Penso che moriremo», afferma quasi robotico uno dei ragazzini mentre esamina le ferite dell’altro. «Credo di non vedere più da un occhio», è la risposta dell’altro. Intanto la belva attinge tranquillamente dal frigorifero, visto retrospettivamente pare sapere già che l’orrore sarà relativizzato e infine accantonato, che i suoi caporioni verranno tranquillamente definiti «il Ministero della Salute di Hamas» da quegli occidentali che lui odia, e presi come fonte attendibile.Il premier Benjamin Netanyahu ha ufficialmente ringraziato Sabine Tasaa per aver approvato la diffusione delle immagini, e chiarito lo scopo: «Mostrare al mondo che Israele non permetterà a Hamas di ripetere le atrocità del 7 ottobre». [[ge:kolumbus:liberoquotidiano:43925431]] Qualunque dibattito dovrebbe terminare qui, non dovrebbe nemmeno iniziare, qualunque uomo dotato di anima, prima che di intelletto, dovrebbe sottoscrivere le parole del primo ministro dell’unica democrazia del Medio Oriente, checché ne pensi di lui. Quelle sono divisioni politiche a valle, a monte c’è l’imperativo scaturito dall’abisso del Novecento, “mai più”, non è vero? No, non è il 27 gennaio, non si commemorano gli ebrei morti, si dà addosso agli ebrei vivi, che lottano (e possono sbagliare, sono uomini) perché la disumanità non vinca, perché Hamas scompaia, perché non ci siano più altre granate lanciate in altri kibbutz addosso ad altre famiglie. Un gruppo di attorucoli insiste a trasformare il Lido di Venezia nella sede distaccata e al caviale delle belve coraniche, ma è il meno. Il punto, l’ossimoro geopolitico e morale, sono tutte quelle democrazie occidentali in fila per riconoscere, qui e ora, “lo Stato di Palestina”. Ovvero, se vogliamo essere fedeli al Machiavelli e guardare «la verità effettuale della cosa» piuttosto che «l’immaginazione di essa»: riconoscere il carnefice che fruga nel frigorifero mentre la piccola vittima accecata invoca i genitori, riconoscere i suoi capi e mandanti (gli stessi che dal loro esilio dorato in Qatar sbraitano che “ci serve il sangue dei bambini palestinesi!”, per inciso ma non troppo), riconoscere la loro causa jihadista, apocalittica, tecnicamente nazista. Farla finita con lo Stato degli ebrei, “dal fiume al mare”, a furia di pogrom, a furia di kibbutz violati e infanzie strappate. È una parola d’ordine vecchissima che dal giorno in cui quella telecamera ha ripreso l’orrore è tornata attualità, ma qui, in quell’Europa che la Shoah l’ha partorita, paradossalmente diventa attualità omessa, non-notizia. “Cazzata”, dicono i collaborazionisti privi di inibizioni.Guardateli, quei bambini seduti nel loro sangue e già rassegnati alla fine, guardate il padre che non tornerà più, guardate il macellaio fiero di sé.Guardate tutto questo ancora e ancora, e maledite chi non lo combatte.
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