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Politica
Il giornalismo d'inchiesta e la bufera sulla privacy
Oggi 15-11-25, 14:57
La bufera scatenata sul Garante della privacy fa tornare in mente Ennio Flaiano: cose gravi ma non serie. La sinistra si stupisce perché un componente, già parlamentare in quota An-FdI, varca la soglia di via della Scrofa per progettare la presentazione di un libro. Il Pd chiede le dimissioni di tutti e quindi anche del Presidente che dello stesso Pd era esponente e, si narra, prescelto perché, grazie all’esperienza e soprattutto alla veneranda età, avrebbe assicurato al Governo giallo-rosso di occupare la poltrona presidenziale. Poi c’è chi dice “sono pronto a dimettermi”, ma tutto sommato non mi dimetto proprio adesso. Il giornalismo d’inchiesta, nel difendere la scelta – non proprio commendevole – di mettere il dito pubblicando conversazioni private tra moglie e marito, rilancia sui privilegi dei membri dell’agenzia indipendente: un mondo dorato tra viaggi in business, ricevuta di una messa in piega di rappresentanza e qualche chilo di ottimo vitello. E l’opinione pubblica fa la sua seconda clamorosa scoperta (dopo quella che esistono le correnti in magistratura, dovuta a un fortunato volumetto di qualche anno fa): le nomine delle agenzie indipendenti sono lottizzate dalla politica. Ma se solo il giornalismo d’inchiesta si fosse occupato delle altre authority, oltre a quella che l’ha sanzionato, avrebbe forse scoperto che appartenenza politica e privilegi non sono appannaggio solo della privacy. Ricordiamoci, allora, che le agenzie indipendenti sono spuntate come funghi nell’Italia degli anni ’90, frutto di Tangentopoli e della crisi della partitocrazia (copyright pannelliano). È la stagione dell’antipolitica che segnò in quegli anni l’incoronazione del giudiziario, rimasto poi principe per oltre trent’anni, e contemporaneamente celebrò l’idea che a governare le cose importanti (mercato, privacy, stampa e tv etc.) non fossero più ministri, sottosegretari e parlamentari, ma dei tecnici. Tecnici indipendenti, ovviamente, e con la possibilità di organizzarsi in perfetta autonomia e senza troppi disturbi, anche con apposite prebende finanziarie, foss’anche maggiorazioni stipendiali, benefici per il personale e così via. Perché la tecnica, suvvia, è meglio della politica ed è, vuoi mettere, garanzia per i diritti dei cittadini. In quegli anni andava di moda nel resto del mondo il liberalismo: meno Stato e al suo posto più libertà e più mercato. [[ge:kolumbus:liberoquotidiano:44944554]] Ma l’Italia non poteva fare a meno di Stato, questa è la verità, e così il Parlamento, in perfetta coerenza con la linea azionista-socialdemocratico-comunista, sfornò, al posto dello Stato, una bella pattuglia di istituzioni indipendenti. Meno Stato ma più autorità, questa era la ricetta. Questo passaggio della storia nazionale si è poi incrociato con l’Unione europea. L’Europa coltivava l’idea che, attraverso i tecnici, avrebbe potuto mettere da canto i politici e conclamare così il suo primato sullo Stato-Nazione. La tecnocrazia giudiziario-europeista ha accolto tra le braccia le autorità e i garanti d’ogni tipo sparsi tra i vari Stati, pensando a costruire anche dei network che legassero questi protagonisti del pensiero tecnico e indipendente sotto la guida della Commissione. Sono, queste agenzie, un braccio armato dell’idea tecnocratica dell’Europa. Quell’Europa apolitica che, nell’epoca felice che precedeva la confusione geopolitica che ci assedia oggi, pensava ingenuamente che questa rete potesse ribaltare le aspirazioni nazionali. Però la politica voleva la sua parte e così ha continuato a metter becco sulle nomine. Non poteva che esser così, cari amici, perché queste autorità quando decidono fanno anche, e inevitabilmente, politica. È questo il punto di fondo e l’equivoco in cui incorrono i benpensanti che di fronte agli scandali (veri o presunti) gridano al tradimento dell’indipendenza. Suscita ilarità l’assordante vociare di attacco alla democrazia da parte di quanti puntano il dito contro il Garante della privacy. Perché il Garante non è espressione di democrazia e non risponde agli elettori, ma solo a se stesso: è un tassello della tecnocrazia. Anche qui torna il problema del bambino e dell’acqua sporca. Quindi attenzione ed evitiamo soluzioni draconiane, che poi finiscono per addossare la colpa del cattivo funzionamento delle autorità alla stessa politica che ne subì l’imposizione (e l’autoamputazione) nella fase storica di massima sua debolezza: un vero paradosso. Però il Parlamento e la politica (non il Governo) potrebbero davvero meglio vigilare sul funzionamento delle autorità e magari anche intervenire per tempo a tagliare qualche privilegio, anziché limitarsi a nominare i (veri o finti) tecnocrati che in nome dell’indipendenza saranno chiamati a dare soluzioni che alla resa dei conti sempre politiche sono. Certo, evitiamo che le cose diventino gravi, ma soprattutto facciamo in modo che siano soprattutto più serie.
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