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La ragione pandemica rubò la ragione critica
30-03-2025, 17:05
Il replicante di Blade Runner che diceva di aver visto cose che noi umani mai avremmo immaginato non è più solo. Tutti abbiamo vissuto, negli ultimi anni, eventi che mai avremmo immaginato. L'emergenza del Covid e la sua gestione politica ci hanno fatto vivere in una sorta di distopia collettiva, a cui in verità ci siamo anche adeguati supinamente, come se quel che succedesse fosse dopo tutto normale. Oggi che tutto è finito, il sentimento predominante nell'opinione pubblica è quello della rimozione. Cioè ancora una volta ad abdicare sembra essere la ragione critica, messa in un cantuccio ad aspettare una nuova possibile “emergenza” o a sperare che ciò mai più accadrà. Un atteggiamento collettivo comprensibile, ma non certo giustificabile. Preziosa è perciò la ponderosa raccolta di saggi (più di 750 pagine) che l'editore Meltemi pubblica in questi giorni per ripercorrere criticamente la storia di quel che è avvento nei giorni del Covid: Critica della ragione pandemica, a cura di Federica Cappelluti, Paolo Cesaretti e Francesco Laviano. Il volume ha numerosi pregi: l'impostazione multidisciplinare, che spazia dalla medicina al diritto, dalle conseguenze sociali e politiche della pandemia fino al tema fondamentale della libertà (a cominciare da quella di espressione); l'impianto scientifico dei contributi, che nulla concedono alla propaganda politica di piccolo cabotaggio; la pluralità ricercata delle voci, non sempre ottenuta perché coloro che avevano sposato la versione ufficiale e accreditata del fenomeno si sono sottratti al dibattito. Pur essendo gli autori provenienti quasi tutti dal mondo accademico, è proprio l'Università ad essere messa sul tavolo degli imputati. “Il mancato ruolo di palladio del libero pensiero e del confronto dialogico dell'Università – scrivono i curatori- ha palesemente contribuito alla definizione e alla diffusa accettazione di misure restrittive e coercitive per la gestione della pandemia, nonostante su di esse da una parte della comunità scientifica fossero state sollevate notevoli e autorevoli perplessità e preoccupazioni”. È impossibile ripercorrere qui gli elementi critici della gestione pandemica, tutti approfonditamente sviscerati dai numerosi autori del volume. Quel che si può dire è che, dalla lettura dei saggi, venga fuori un'amara verità: ad essere sconfitta è stata proprio quella mentalità liberale che consideravamo propria della civiltà occidentale. Non solo infatti sono stati presi provvedimenti che sospendevano le libertà fondamentali, ma essi non sono stati nemmeno adeguatamente motivati dalle autorità o da chiunque avesse una voce di rilievo nel dibattito pubblico. Ad un certo punto è sembrato normale che si usassero dispositivi di controllo e sorveglianza, come il cosiddetto Green pass; si escludessero dal dibattito pubblico e si mostrificassero tutti quegli scienziati, uomini di cultura o semplice persone di buon senso che osavano sollevare dubbi; si riducesse al minimo il ruolo del Parlamento, che pure in una democrazia è l'organo rappresentativo della volontà popolare; si creassero macchine burocratiche di “esperti” che si sostituivano alla politica e all'amministrazione ordinaria; si accettasse una comunicazione ossessiva e aggressiva, con uso di termini bellici amplificati da un certo sensazionalismo giornalistico; si avvalorasse un'idea falsa della scienza, presentata come depositaria di una verità unica e inconfutabile, mentre è proprio sulla continua falsificazione delle proprie tesi che essa vive e progredisce. Fatto ancora più inquietante è che il paternalismo statale fosse reclamato dai più in una sorta di ricercata “servitù volontaria”. Si può essere d'accordo o meno con alcune o tutte le tesi del libro, ma è indubbio, come scrivono i curatori, che “l'eredità della ‘ragione pandemica' va conosciuta per evitare nel futuro nuove abdicazioni della ragione critica”.
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