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Le cento salsicce italiane: ecco cosa non sapete
Oggi 27-10-25, 04:25
Mentre a Gubbio si chiudeva la prima edizione del festival “Ciccia, l’Italia in 20 Salsicce” tra polemiche sui numeri, a Morlupo (Roma) si preparava la 57ª edizione della storica sagra della salsiccia che si chiude oggi. Due eventi, due filosofie diverse, un unico protagonista: la salsiccia, prodotto popolare per eccellenza che racchiude un patrimonio sorprendente fatto di quasi 100 varietà riconosciute come Prodotti agroalimentari tradizionali. Il loro elenco racconta un’Italia ricchissima di tradizioni salumiere: 92 salsicce Pat distribuite in 20 regioni e province autonome, di cui 65 con una vera identità territoriale specifica. Il Lazio guida la classifica con 13 prodotti, seguito da Campania (11), Toscana (7), Basilicata e Veneto (6 ciascuna). Questo senza contare gli insaccati a Denominazione comunale (De.co) che sfuggono a qualunque censimento. Eppure, di fronte a questa straordinaria profondità di sapori, spicca un dato paradossale: solo tre salsicce italiane hanno ottenuto la certificazione europea, la Salsiccia di Calabria Dop, la Salsiccia secca di Cinta Senese Dop e la Lucanica di Picerno Igp, in provincia di Potenza. Tre su quasi cento. L’unico altro caso in movimento è la Luganega di Monza, in procinto di avviare l’iter per ottenere l’Igp (Indicazione geografica protetta), come racconta Fabio Rubini in questa stessa pagina. La storia della salsiccia italiana affonda le radici nell’antica Roma del primo secolo avanti Cristo, quando lo storico Marco Terenzio Varrone descrisse per la prima volta la «lucanica». Nelle sue opere spiegò che i soldati romani avevano appreso dai Lucani - gli abitanti dell’attuale Basilicata - l’arte di insaccare carne di maiale tritata con spezie e sale nel budello dell’animale. Una tecnica rivoluzionaria per l’epoca, che permetteva di conservare la carne molto più a lungo. Nel De Re Coquinaria, l’opera culinaria più importante dell’antichità attribuita a Marco Gavio Apicio, si trova la ricetta dettagliata della lucanica: pepe, cumino, santoreggia, ruta, prezzemolo, bacche di alloro e garum - la salsa di pesce fermentato base della cucina romana - mescolati con la carne tritata, insaccati nel budello e poi affumicati. Una preparazione che non è poi così diversa da quella di molte salsicce tradizionali odierne. È affascinante pensare che quando oggi addentiamo una Lucanica di Picerno stiamo gustando quasi lo stesso alimento che sfamava i legionari romani. Dietro ogni salsiccia c’è una storia. La più singolare è probabilmente quella della salsiccia di Bra: nel 1847 un regio decreto di Carlo Alberto autorizzò i macellai della cittadina piemontese a produrre salsicce con carne bovina, una deroga unica nel Regno di Sardegna. Il motivo? La vicina comunità ebraica di Cherasco, che non consumava carne suina, si riforniva al mercato di Bra. Ancora oggi la salsiccia di Bra è composta per il 70-80% da carne magra della pregiata razza fassona e per il 20-30% da pancetta di maiale. Ma la vera peculiarità è un’altra: si mangia prevalentemente cruda. Una delle pochissime salsicce italiane con questa caratteristica, protetta dal 2003 da un Consorzio di Tutela che riunisce i macellai del territorio e ha depositato un disciplinare stringente alla Camera di commercio di Cuneo. Le varietà regionali raccontano territori e tradizioni: la Corallina romana nel Lazio, le luganeghe venete (trevigiana, padovana, da riso), il Mazzafegato di Viterbo speziato, la salsiccia rossa di Castelpoto in Campania col suo colore intenso dato dal peperoncino, la salsiccia di cinghiale toscana, fino alle Hauswurst e Leberwurst dell’Alto Adige, salsicce della tradizione tirolese. Esistono persino salsicce di selvaggina - la Gamswurst di camoscio e la Hirschwurst di cervo altoatesine- e salsicce arricchite da ingredienti vegetali: la salsiccia di riso piemontese contiene riso cotto, la salsiccia di cavolo unisce carne e verza, quella con le rape del Veneto include rape nell'impasto. Alcune salsicce nascono da necessità religiose, altre da esigenze di conservazione, altre ancora dall'ingegno di valorizzare anche le parti meno pregiate dell'animale. La salsiccia pezzente calabrese, ad esempio, deve il suo nome proprio all’uso di tagli poveri, mentre la salsiccia di fegato, diffusa in diverse regioni, trasforma le frattaglie in un prodotto dal sapore intenso e caratteristico. Nonostante questa ricchezza, la salsiccia resta confinata ai margini della grande cucina italiana. Raramente compare nei menu dei ristoranti stellati, se non in reinterpretazioni come le “polpette di salsiccia e finocchietto” di Simone Cantafio all'Incö in Alta Badia, o nei piatti di chef come Walter Ferretto (una stella Michelin) e Lorenzo Cuomo (una stella Michelin).
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