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Mantova, l'imam predicava la jihad: l'allievo diventa terrorista
Oggi 22-10-25, 04:31
Cattivi maestri. Seminari d'odio. Pupari di menti fragili. Si nascondono, dietro le vesti sacre da imam o capi moschea, per poter dirigere meglio gli “utili idioti” del terrorismo islamista. La vicenda che raccontiamo oggi mostra un'altra tappa dell'escalation silenziosa che vede moltiplicarsi le indagini a carico di stranieri, spesso irregolari, che promettono la jihad da casa nostra. Vieni Khalil Ullah. Ha 37 anni, è originario del Bangladesh, ma da tempo risiedeva a Castel Goffredo, in provincia di Mantova, dove lavorava in una ditta dell'indotto Fincantieri. Apparentemente integrato, viveva una doppia vita. Dietro la facciata da operaio, c'era un ruolo ben più pericoloso: quello di predicatore radicale. Secondo la Procura di Brescia, Ullah svolgeva un'attività sistematica di indottrinamento nei confronti di giovani, alcuni appena adolescenti, spesso vulnerabili o semplicemente suggestionabili. Offriva loro testi, video, e contenuti che propagavano la dottrina più feroce della guerra santa, quella targata Al Qaeda e Stato Islamico. Scrive il giudice Angela Corvi, nel provvedimento con cui ha disposto gli arresti domiciliari per l'uomo: «Approfittando del suo ruolo carismatico di guida, nella comunità Tabligh mantovana, avvicinava anche giovanissimi, inclini a farsi sedurre dalla jihad o immaturi, per instillare dogmi, regole e precetti che li spingevano ad azioni violente, ai danni di civili colpevoli solo di non professare la loro fede». Ullah, in più occasioni, avrebbe definito sé stesso «amante di Al Qaeda» e «guerriero di Dio». Le indagini, condotte dalle Digos di Brescia e Genova sotto la regia della pm Claudia Passalacqua, hanno permesso di ricostruire un contesto che va ben oltre il singolo episodio. Il nome di Ullah, infatti, era già emerso nell'ambito di una precedente inchiesta genovese che aveva portato alla condanna di Faysal Rahman, 22enne di origine pakistana, nato e cresciuto a Sestri Ponente, riconosciuto come militante del gruppo Tehrik-e-Taliban, affiliato ad Al Qaeda. [[ge:kolumbus:liberoquotidiano:44425899]] Pure Rahman si dichiarava «soldato di Dio». Ma secondo il giudice, fu proprio dopo l'incontro con Ullah che la sua trasformazione divenne irreversibile. «Cambia pelle», scrive il gip, passando da una lettura tradizionale del Corano a una interpretazione che giustifica la violenza come strumento inevitabile. La «guerra santa» diventa l'unico orizzonte possibile. E il Corano, nella visione distorta inculcata dal maestro, diventa un manuale operativo per punire i miscredenti. Le forze dell'ordine li intercettano in auto mentre ascoltano i nasheed, i canti di guerra della galassia jihadista. Uno di questi recita: «Alzati o muori se vuoi diventare un martire. L'ora della morte è giunta Fai esplodere la terra e così rimarrà la fiamma. Taglia e calpesta le teste degli ingiusti e dei falsi». Rahman, nel frattempo, si autoaddestra all'uso del kalashnikov. Non in un poligono tra le montagne dell'Asia centrale, ma in una stanza, forse nel seminterrato di casa, grazie a video ricevuto probabilmente dall'estero. È l'ultimo passaggio di una traiettoria che parte da un sermone acceso, passa per l'esaltazione spirituale, e finisce per tradursi in preparazione concreta all'azione violenta. Le autorità italiane sono arrivate a lui in modo quasi casuale. A innescare tutto è stato un disegno portato a scuola dal fratello minorenne di Rahman: un Kalashnikov accanto alla moschea di Gerusalemme, con la scritta “7sky”. Un gesto che ha insospettito gli insegnanti, diventando il punto di partenza di un'indagine che avrebbe rivelato ben altro. L'inchiesta bresciana svela ancora una volta come il terrorismo strisciante non necessita di esplosivi né di cellule armate per attaccare. Gli basta un pulpito, un collegamento web, un sermone e qualche discepolo da istruire. Le nostre città diventano così laboratori sotterranei, dove la miscela tra disagio, ignoranza e manipolazione religiosa producono mujahiddin da cortile, pronti ad assorbire dogmi travisati come verità assolute. Il caso di Ullah lo dimostra: il radicalismo non urla, si insinua. Non marcia in piazza, ma scivola nei salotti, nei centri religiosi, nei gruppi Telegram. Non reclutare tra gli emarginati, ma tra chi cerca risposte assolute, anche a costo della violenza. Cattivo maestro Ullah, pessimo discepolo Rahman. [[ge:kolumbus:liberoquotidiano:44512027]]
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