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Maturità fascista e Giorgio Armani trasformato in un compagno: la sinistra non cambia mai
Oggi 06-09-25, 08:10
Non resistono. Hanno cucito addosso a Giorgio Armani il vestito del «democratico e antifascista». Hanno sfoderato l’uncinetto progressista per intrecciare il ritratto del genio che «veste i politici, ma non si fida». Disquisendo di eleganza e (com)portamento sociale, hanno plissettato la superiorità antropologica dove «è difficile immaginare l’influencer, il calciatore, il tronista, il gieffino, ma anche il politico populista, o l’opinionista prêt -à -penser griffati Armani». Esibendo il punto croce, hanno ricamato l’Armani che ha realizzato «il progetto democratico» e, perdinci, è chiaro che dopo di lui «non abbiamo più artisti universali in alcun altro campo». Il sincero democratico con la morte di Giorgio Armani s’è sparato le ultime cartucce della resistenza del “ceto medio riflessivo”, dunque che si stampi il manifesto degli intellettuali in abito da cocktail, il cartamodello di un’Italia su misura, la loro, che non esiste. Non hanno resistito, anche Armani è finito nel catalogo del politicamente corretto del presente. Nel défilé del giornalista democratico gli accessori sono sempre quelli: fascismo e antifascismo, l’Italia migliore contro quella peggiore, il colto che scruta come un entomologo l’incolto, il civilizzato che appende il barbaro. [[ge:kolumbus:liberoquotidiano:43993942]] Niente di nuovo sul fronte occidentale, i singulti del grande dolore per l’alzarsi della notte della democrazia s’erano levati altissimi fin dal primo rintocco a morto, lento e solenne è arrivato il necrologio collettivo, un’ultima goccia d’inchiostro e via, «la moda è morta». Sono labirinti psicologici di notevole interesse clinico (e cinico): fanno un surreale ritratto da esule del ‘68 di Giorgio, mentre sono tormentati dall’incubo di Giorgia (che veste Armani). La necrofilia giornalistica del rimpianto (falso) è un sotto genere letterario, incubato nella nuova dittatura meloniana, si capisce. Siamo circondati da un eterno girotondo che riscrive la storia e le biografie. Nel giro di 48 ore dunque abbiamo visto Giorgio Armani trasformato da vetrinista a genio della sinistra in giacca destrutturata e antifascista, mentre sulla riforma dell’esame di maturità, la mirabile macchina del tempo della Cgil ha compiuto un salto nella scuola del fascismo, un viaggio di andata (senza ritorno) da Giovanni Gentile a Giuseppe Valditara. [[ge:kolumbus:liberoquotidiano:43992882]] Si comincia con i primi anni di scuola, con la maestra che ti insegna a leggere e a scrivere, a contare e a ragionare, e quando si arriva all’esame di maturità ecco la Cgil che descrive l’incubo pedagogico: «La denominazione di esame di Maturità è la stessa che ha avuto a partire dal lontano 1923 e non richiama l’acquisizione di un titolo, ma il passaggio da un’età adolescenziale a una più matura, con uno sguardo paternalistico a studentesse e studenti». Cribbio, ecco la «risposta autoritaria» del melonismo, la maturità. Santo cielo, la Cgil trapassa dalla questione linguistica alla lotta politica, dalla semantica alla protesta e per chi ha letto con passione Roland Barthes, il problema non è quel che pensano i seguaci di Maurizio Landini, ma il grande mistero che si sprigiona in una frase: «Nell’amorosa quiete delle tue braccia, m’inabisso, soccombo». Tra i «Frammenti di un discorso amoroso» e le note della Cigl, c’è effettivamente un abisso, è la stessa distanza che separa il genio di Armani dalla griffata Bandiera rossa dei suoi biografi. Per lui, Giorgio, che aveva nel cuore un altro colore, il blu. Che sublime contrappasso. [[ge:kolumbus:liberoquotidiano:43988901]]
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