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Mondiali di atletica, 7 medaglie che danno fiducia per Los Angeles
Oggi 22-09-25, 13:12
C’era un tempo in cui ai Mondiali di atletica l’Italia si aggrappava alla marcia per restare nel libro delle medaglie. La grande scuola azzurra - da Maurizio Damilano a Didoni, da Brugnetti a Stano, fino a Palmisano e Giorgi - teneva viva la tradizione, con la sensazione che oltre a quei chilometri scanditi dal rumore dei passi non ci fosse molto da festeggiare. E gli ori? Sempre grazie ai marciatori e a atleti come Fiona May, poi la traversata del deserto: dopo Giuseppe Gibilisco a Parigi 2003 con l’asta, abbiamo atteso diciannove anni, fino a Eugene 2022, per rivedere il tricolore sul gradino più alto grazie alla marcia di Massimo Stano. Poi, finalmente, la stagione dei sorrisi: Tamberi oro a Budapest 2023, Furlani oro a Tokyo 2025. Nel mezzo le gioie olimpiche di Tokyo. Da quell’attesa si è passati a un Mondiale che segna una svolta. A Tokyo l’Italia ha conquistato sette medaglie-1 oro, 3 argenti e 3 bronzi - piazzandosi sesta nel medagliere per punti. È il miglior risultato di sempre, non solo per la quantità, ma per la distribuzione: non più un settore solo, ma più specialità capaci di arrivare fino al podio. È la fotografia di un movimento che cresce in larghezza e profondità. [[ge:kolumbus:liberoquotidiano:44186081]] Il titolo mondiale di Mattia Furlani nel lungo (8,39) è il simbolo di una generazione che non ha paura di misurarsi con i giganti. A vent’anni ha saputo gestire una finale con freddezza da veterano. L’Italia non si è fermata lì: Nadia Battocletti ha messo insieme un argento nei 10.000 e un bronzo nei 5.000, Antonella Palmisano ha riportato la marcia sul podio con l’argento nella 20 km, Andrea Dallavalle ha centrato il secondo posto nel triplo, Iliass Aouani è salito sul terzo gradino nella maratona e Leonardo Fabbri ha completato il bottino con il bronzo nel peso. Accanto alle medaglie, tanti finalisti e semifinalisti: dai giovani come Pernici e Riva ai già noti come Arese e Simonelli. È questa base larga a fare la differenza, perché certifica continuità e prospettiva. Il paradosso è che questo record di podi sia arrivato senza le firme dei tre campioni più attesi: Jacobs, Tamberi e Diaz. Jacobs, pur in crescita, si è fermato in semifinale nei 100 ma ha dato cuore in staffetta; Tamberi ha vissuto un anno complicato ed è rimasto lontano dai suoi standard; Diaz ha pagato una pubalgia fastidiosa. A loro si aggiungono le giornate storte di Larissa Iapichino e l’infortunio che ha fermato Stano. Eppure il movimento non si è piegato. Anzi, ha trovato risorse altrove, segno che il ricambio è concreto. [[ge:kolumbus:liberoquotidiano:44173981]] Meno brillante la velocità, che ha segnato il passo. Le staffette non hanno saputo replicare i fasti più o meno recenti tra olimpiadi e mondial. Il quadro va analizzato con lucidità: la sfortuna c’è (leggasi infortuni), ma serve anche una gestione più attenta dei carichi, un controllo centralizzato che consenta di arrivare alle grandi rassegne con gli atleti pronti, non ultimo chiarire i rapporti interni. L’eco del caso Jacobs/Tortu sembra non essere ancora definito del tutto. Il bilancio finale, comunque, non ammette dubbi: l’Italia è entrata stabilmente nella seconda fascia mondiale, quella che non guarda più con timore alle grandi potenze. Per salire al livello successivo servirà che la velocità torni a produrre finalisti e che i big ritrovino la loro dimensione. Il presente però è già un patrimonio: sette medaglie, un oro pesantissimo, una squadra che si allarga. La conferma è chiara: l’atletica italiana non vive più di exploit isolati, ma di una crescita strutturale. Ora l’orizzonte diventa Los Angeles 2028: lì passerà l’esame più difficile, quello olimpico, perché l’obiettivo resta sempre lo stesso, trasformare un movimento solido in un’Italia che sappia scrivere la sua storia anche all’ombra dei Cinque Cerchi.
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