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Sport
Russia, giusto far tornare la bandiera ai giochi
Oggi 28-09-25, 12:25
Da queste parti siamo tutto meno che dei facili irenisti, sappiamo che i sermoni virtuosi al riparo dalla realtà, specie geopolitica, sono il vizio peggiore del giornalismo, detestiamo la retorica autocompiaciuta sui ponti sempre da costruire, le porte sempre da spalancare eccetera. Fatta quest’inscalfibile premessa di realismo, occorre essere realisti fino in fondo, esplorare il realismo in tutte le sue possibilità e non ridurlo alla sua caricatura, il cinismo custode dello status quo. Esempio: se lo status quo è la guerra, se la regola da tre anni e mezzo sono i carri armati, i bombardamenti, il fiume di sangue e l’afasia della diplomazia (tentativi di Trump a parte), lo sport può essere l’eccezione. Probabilmente, deve essere l’eccezione. Lo deve proprio in quanto «forma superiore dell’esistenza umana», come diceva il grande filosofo spagnolo José Ortega y Gasset. Lo sport non conosce quell’alfabeto basilare della politica che è l’infingimento, non vive di arcana imperii ma di prodezze esplicite, tantomeno può appiattirsi su quella «continuazione della politica con altri mezzi» che è la guerra secondo Von Clausewitz, piuttosto è articolazione pura del gesto individuale, quindi libertà. Per questo ha fatto benissimo l’Assemblea Generale del Comitato Paralimpico Internazionale, riunita a Seul, a revocare le sospensioni parziali dei Comitati Nazionali di Bielorussia e Russia. Nella pratica, significa che gli atleti dei due Paesi potranno partecipare ai XIV Giochi paralimpici invernali, in agenda a Milano e Cortina d’Ampezzo dal 6 al 15 marzo 2026, non più come “neutrali” (un’aberrazione anche nello sport, una delle pochissime analogie con la politica) ma sotto le rispettive bandiere nazionali. E, spiace dirlo perché nella mappa bellica e geopolitica parliamo dell’aggredito (checché ne dicano i troppi aedi del Cremlino alle nostre latitudini), è totalmente fuori fuoco la reazione indignata dell’Ucraina, per bocca del ministro dello Sport Matviy Bidny: «Questa decisione tradisce i valori olimpici». Ennò, ministro, al contrario è una scelta saldata nella radice originaria, greca, dello spirito olimpico, che prevedeva la “Ekecheiria”, la tregua sacra che garantiva l’incolumità di tutti gli atleti, spettatori e pellegrini che si recavano a Olimpia. È l’anima dell’Occidente, possiamo calpestarla proprio noi che fronteggiamo l’invasore di scuola Kgb in nome della diversità occidentale? Questo genere di miopia, la sovrapposizione fra tragedia della guerra ed epos dello sport, diventa doppia se praticata dall’Uefa nei confronti di Israele, democrazia prima sotto attacco e poi all’offensiva che (piaccia o no alle anime belle) incarna il modo di vita occidentale nell’inferno spesso islamista del Medio Oriente. Eppure, il massimo organismo del calcio europeo sta seriamente valutando di escludere lo Stato ebraico (tutte le nazionali e le squadre impegnate nelle Coppe come il Maccabi Haifa) da tutte le competizioni, compresi i Mondiali del giugno prossimo che si terranno in Stati Uniti, Canada e Messico. Un sopruso (anti)sportivo bello e buono, alla cui testa ci sarebbero la Spagna socialista di Sanchez e gli emiri del Qatar, a confermare l’alleanza tipica della contemporaneità tra cosiddetti progressisti e custodi della sharia. Soprattutto, sarebbe lo sconfinamento nel campo da calcio della retorica militante “antisionista”, grazioso eufemismo in voga per non dire (ancora per quanto?) antisemita. Qui, sarebbe l’ingabbiamento dello sport dentro il canovaccio della politica nella sua veste peggiore, l’ideologia totalitaria. L’impostura definitiva.
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