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Estero
Trump pubblica il manifesto che può cambiare il mondo
Oggi 06-12-25, 14:23
Non è mai stata così elementare la strategia per la sicurezza nazionale americana, trentatré pagine pubblicate giovedì, con inusuale discrezione, sul sito della Casa Bianca, organizzate in elenchi puntati, come piace a lui («anzi, mi piace che abbiano meno punti possibili», ha detto), accorpati sotto titoli ancor più elementari. Cosa vogliono gli Stati Uniti in generale? Cosa vogliono nel mondo e dal mondo? Quali sono i mezzi a disposizione dell’America per ottenere ciò che vogliamo? I principi, Le priorità, Le regioni. Elementari sono giocoforza le conclusioni che ne se traggono e cioè che le decisioni di politica estera che informano il secondo mandato di Donald Trump devono rispondere a tre necessità: rendono l’America più forte? Rendono l’America più sicura? Rendono l’America più ricca? Se non rispondono a queste tre domande, e preferibilmente a tutte e tre, saranno considerate strategie sbagliate. Il Segretario di Stato Marco Rubio non fa che ripeterlo dall’inizio del mandato: la Casa Bianca del presidente non si sente custode dell’ordine mondiale, non è il “grande arsenale della democrazia” di Franklin Delano Roosvelt e non confonde gli interessi dell’America con il miglioramento della società globale. Ma, ha scritto ieri Politico, il documento di 33 pagine è una rara spiegazione formale della visione di politica estera di Trump da parte della sua amministrazione. Si parte dalla sicurezza interna: confini sotto controllo, fine dell’era delle migrazioni di massa, protezione dell’economia da pratiche predatorie, deterrenza nucleare modernizzata, Golden Dome anti-missilistico, reindustrializzazione del Paese, dominio energetico fondato su combustibili fossili e nucleare, primato scientifico e difesa della proprietà intellettuale. [[ge:kolumbus:liberoquotidiano:45281601]] E si arriva alla sicurezza esterna: riaffermazione dell’emisfero occidentale come zona di influenza esclusiva, contenimento economico e tecnologico della Cina, unito alla deterrenza nell’Indo-Pacifico per scoraggiare un conflitto su Taiwan, promozione della grandezza dell’Europa, descritta come civiltà in declino, stabilizzazione del Medio Oriente così che non sia più dominante nell’agenda americana; leadership globale negli standard tecnologici su IA, biotech e quantistico. La sistematizzazione delle intenzioni di Washington in politica estera (che ai più, val la pena ricordarlo, sembravano le tarantolate mosse di un pazzo) fa ricorso all’arsenale dei testi sacri della tradizione nazionale e si mette in scia – nel senso proprio e figurato – a James Monroe, il presidente artefice, insieme con John Quincy Adams, dell’omonima dottrina nel 1823. “L’America agli americani” era lo slogan dell’epoca, quando gli statunitensi si stancarono di vedere le potenze europee far scorribande nel loro cortile di casa. Duecento anni dopo il monrovismo rivitalizzato dall’ “America first” – già diventato, subito dopo la vittoria di Trump “Dottrina Donroe” – promette lo stop a qualsiasi presenza strategica americana al di fuori dell’emisfero occidentale e una ridislocazione delle forze. Da qui l’uso della forza contro i cartelli sudamericani e la criminalità transnazionale, l’interesse nell’acquisizione della Groenlandia, che fa molta gola a Russia e Cina, l’ira per l’ingerenza cinese nel Canale di Panama, l’attacco al regime di Nicolás Maduro, la vicinanza, anche economica, all’Argentina di Javier Milei e gli accordi commerciali con El Salvador, Argentina, Guatemala, Ecuador. E questo perché, torniamo all’elementare, non si può essere una potenza globale se non si è una potenza regionale. Dopodiché gli oneri per la sicurezza vanno condivisi, vedi il raggiungimento del 5% del Pil in spesa militare per i membri Nato, le alleanze e i parternariati non sono per sempre, per poter affrontare le minacce urgenti ed evitare la dispersione strategica del passato. La dottrina, cui l’inquilino della Casa Bianca ha aggiunto il suo corollario, come fece Theodore Roosevelt ai primi del Novecento, non è una novità: un gruppo di deputati del Gop, a dicembre 2023, a ridosso del bicentenario del discorso di James Monroe in cui espose il testo, presentarono una proposta di risoluzione che dava seguito alle dichiarazioni del governatore Ron DeSantis sulla necessità di «una dottrina Monroe per il XXI secolo» e per riaffermare la ferma condanna verso qualsiasi tentativo da parte di potenze non-americane di estendere la propria influenza nel continente. Il riferimento era alla questione, nota a Washington da tempo, dell’espansione cinese e russa nell’America latina. E pensare che alla dottrina era già stato fatto il funerale, nel 2013, celebrato dall’allora Segretario di Stato di Barack Obama John Kerry. «L’era della dottrina Monroe è finita», dichiarò, togliendosi il cappello di poliziotto. Per poi mettersi il tocco e aggiungere che le nazioni latinoamericane erano finalmen te maturate. [[ge:kolumbus:liberoquotidiano:45278321]]
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