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Estero
I 50 anni dalla guerra in Vietnam, dall'intervento americano alla fuga da Saigon
Ieri 29-04-25, 17:56
AGI - Cinquant'anni fa l'ingresso dei Viet Cong e delle truppe nord-vietnamite a Saigon poneva fine a una delle più lunghe e sanguinose guerre del Novecento. Quello stesso giorno, dalla capitale del Vietnam del sud, gli Stati Uniti ritiravano gli ultimi soldati e con loro partivano anche alcune migliaia di sudvietnamiti, 'compromessi' con il passato regime di Nguyen Van Thieu. Finiva così quel conflitto che per vent'anni aveva contrapposto le forze insurrezionali filocomuniste - sorte in opposizione al governo autoritario filo-statunitense costituitosi nel Vietnam del Sud - e le forze governative della Repubblica del Vietnam, che dal 1965 aveva visto anche l'intervento diretto degli Stati Uniti. Intervento che causo' la morte di oltre 58mila soldati americani, ma che in realtà era cominciato dieci anni prima con l'amministrazione Eisenhower che sin dalle prime fasi della guerra aveva inviato consiglieri militari a sostegno del governo di Saigon. "Il coinvolgimento degli Usa nella guerra in Vietnam rientra nella logica della guerra fredda, la 'domino theory' che postulava la concatenazione degli eventi per i quali un cedimento al comunismo controllato da Mosca si sarebbe riverberato su altri Paesi circostanti e avrebbe avuto un effetto valanga. Gli Stati Uniti decidono cosi' di intervenire in Vietnam per evitare non la caduta del Vietnam, ma il contagio di tutti i Paesi dell'area". A ricostruire all'AGI le origini della guerra in Vietnam e il ritiro statunitense è Gregory Alegi, docente di storia e politica degli Usa alla Luiss. L'intervento americano Inizialmente solo indiretto, il 9 febbraio 1965, con l'operazione Flaming Dart ordinata dal presidente Lyndon Johnson, una serie di attacchi aerei contro il Vietnam del Nord aveva determinato il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nella regione vietnamita. "Johnson decide di intervenire anche in questo caso per una concatenazione - ricorda Alegi. Tutto parte con Truman ed Eisenhower, fino ad arrivare all'elezione del novembre '60 in cui si insedia Kennedy e che prosegue in continuità con i due presidenti repubblicani. Con la morte di JFK, Johnson decide di continuare la linea d'intervento con un coinvolgimento sia numerico che qualitativo sempre più forte". Sia repubblicani che democratici, pur con motivi diversi, convergono nella continuità di intervenire. "Per Truman la ragione risiede nell'opposizione al comunismo e anche Eisenhower prosegue su questa linea cercando di mantenere le cose entro dimensione gestibili. I democratici, invece, da un lato vorrebbero tirarsene fuori, ma dall'altro si sentono moralmente ricattati perché accusati di essere deboli nei confronti del comunismo, motivo per cui all'inizio della presidenza, Kennedy sente di non avere alternativa all'invasione di Cuba, un'operazione di Eisenhower che lui trova pronta e decide di compierla". Stesso discorso per Johnson con il Vietnam. "Lui avrebbe voluto essere ricordato come quello che amplia la rete di tutela sociale e i diritti - evidenzia lo storico degli Usa - la 'great society' è il suo sogno, ma invece alla fine lo ricordiamo come quello che è stato sconfitto in Vietnam". E questo gli costerà il secondo mandato. "Con un gesto shakespeariano rinuncia a ricandidarsi prendendo su di sé tutta la responsabilità di quella guerra". Caso raro di un presidente che dice "è colpa mia". I paradossi del conflitto "Perché sì - sottolinea Alegi - il picco di americani e anche di vittime è sotto Johnson, anche se poi bisogna ammettere che i bombardamenti, quelli 'cattivi' su Hanoi, li compie Nixon". Ma Nixon passerà alla storia come il presidente che quella atroce guerra l'ha conclusa, "sebbene rispetto a Johnson, che viveva malissimo la guerra, non si poneva appunto scrupoli nel bombardare". Ma un altro paradosso di quel conflitto tocca lo stesso Nixon, che prima del Watergate dovrà affrontare anche lo scandalo dei Pentagon Papers, quando il New York Times pubblicò lo studio segreto commissionato sotto Johnson e che spiega come l'amministrazione democratica abbia mentito raccontando che la guerra stava andando bene, nonostante sapevano non fosse vero. "Dal punto di vista politico - evidenzia Alegi - Nixon poteva cavalcare la tigre, attribuendo tutta la colpa ai democratici, ma invece è costretto a cercare di reprimere la fuga di notizie in nome dello Stato. Perché se si fa passare il concetto che la segretezza è una questione di opportunita' politica a quel punto crolla il sistema. E questo non si può mai permettere". Gli accordi di Parigi e i fallimenti Sulla scia di questo clima si arriva agli accordi di pace Parigi del 1973 che pongono formalmente fine all'intervento statunitense in Vietnam. Alegi ricostruendo quel trattato ricorda che "l'accordo teorico immaginava che il Vietnam del Sud potesse resistere da solo e che quel tentativo di democratizzazione - che in fondo gli Usa hanno tentato di realizzare in Vietnam fin dall'inizio - potesse concretizzarsi". L'idea è: "ci ritiriamo come combattenti e torniamo a essere istruttori e consiglieri, ma la guerra ora la fate voi". Ma passano due anni e Saigon cade. "In questi due anni c'è la lenta erosione, e alla fine l'obiettivo e la strategia di trasformare il Vietnam del sud in uno stato "occidentale e democratico", si rivela un fallimento. "In termini pratici - spiega Alegi - la creazione di un Vietnam del Sud autosufficiente serve a salvare la faccia, anche se i negoziatori di Washington probabilmente avevano piu' speranze-illusioni di quante non ne avessero i militari sul campo che hanno sempre avuto una modesta fiducia nella capacita' vietnamita di creare istituzione". Ma più che un problema di prestazioni militari, è il costrutto sociale che non poteva funzionare lì, in quella zona. Alegi ricorda diverse testimonianze di numerosi ufficiali americani che erano in servizio con le unità vietnamite e che ancora oggi continuano ad affermare che "i vietnamiti, che se ne dica, combattevano anche bene, il problema è che poi intorno non c'era nulla". Ma il risultato, alla fine, dice che è stato un fallimento, anche da un punto di vista tecnico. "Sicuramente c'era la difficoltà di un esercito immaginato per uno scontro simmetrico utilizzato invece contro guerriglieri, in cui mancano gli obiettivi per i quali si sono preparati. Faccio un esempio: il carro armato nasce per combattere contro un altro carro armato, l'aeroplano è nato per distruggere certe infrastrutture, ma se queste infrastrutture non ci sono e l'unico obiettivo sono le capanne nella giungla si rischia di fare più danni civili e sociali sproporzionati rispetto ai risultati militari". A questo si aggiunge la mancata comprensione della societa' civile. "I contadini che vivevano nei villaggi tutto sommato erano esposti e anche attirati alle idee rivoluzionarie socialiste-comuniste del Vietnam del Nord che prometteva un miglioramento sociale". Cosi' conclusa la guerra i Viet Cong conquistano Saigon e unificano il Paese, anche grazie al sostegno di buona parte della popolazione, insoddisfatta del governo del Sud e delle ingerenze di una potenza straniera. Il paragone con Kabul E qui la mente, non può non andare all'Afghanistan. "Kabul e il suo esito sono molto simili con quanto accaduto a Saigon: la superiorità militare non basta a superare la differenza sociale e quarant'anni dopo - scandisce Alegi - l'illusione di creare una democrazia occidentale auto-sostenente si rivela ancora una volta fragile". Le scene strazianti della fuga di Kabul con la gente attaccata agli aeroplani sono uguali alla fuga di Saigon. "Un secondo Vietnam, perché ripropone la differenza tra una guerra simmetrica che viene vinta velocemente e riuscire a tenere sotto controllo un intero Paese, che diventa difficile, un'impresa impossibile per i tempi che hanno a disposizione le democrazie occidentali". Una conclusione, quella di Alegi, che si ritaglia perfettamente ai tempi odierni, perche' "purtroppo o per fortuna, noi occidentali, anche quando siamo disposti a fare la guerra, vogliamo che sia breve. Non siamo disponibili ad accettare processi plurigenerazionali. Noi non abbiamo voglia di stare in guerra per mezzo secolo, e dunque cerchiamo un intervento chirurgico". Oggi dopo 50 anni dall'operazione Frequent Wind, Alegi prova a trarre un bilancio e le conseguenze, anche politiche di quella guerra. "Possiamo far risalire al Vietnam le spaccature della società americana attuale, da un lato la dimensione accademica che la condanna, semplificando, come 'guerra imperialista', e dall'altro la parte più' conservatrice che dà una lettura militare in cui i soldati, i combattenti, sono stati abbandonati dai politici. Una lettura anti-establishment, anti-Washington, anti-politica, che oggi porta a Trump".
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