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Cronaca
I testimoni della tragedia dell'Heysel: "Da una festa si trasformò in tragedia"
Ieri 29-05-25, 18:02
AGI - "Il 29 maggio è il mio secondo compleanno. Da quarant'anni vivo con il pensiero che tra quelle 39 vittime ci sarei potuto essere anch'io". Così, con la voce incrinata dall'emozione, Raffaele Picciotti, docente di Bitonto e testimone della strage dell'Heysel, apre uno squarcio su una delle ferite più profonde della storia sportiva e civile del nostro Paese. Quarant'anni fa, a Bruxelles, allo stadio Heysel, la Coppa dei Campioni si trasformò in un requiem. Juventus-Liverpool doveva essere una festa, si rivelò un massacro. Trentadue italiani persero la vita tra i trentanove che non fecero più ritorno a casa. Oltre seicento furono i feriti. Migliaia, invece, gli occhi che videro troppo e non dimenticarono più. Era il 29 maggio 1985. L'Europa si accendeva di attese, ma si spense nella polvere e nel sangue. Il muro dello stadio, opposto al settore degli hooligans inglesi, cedette sotto la pressione della folla in fuga, provocata dall'assalto dei tifosi Reds. Tra i sopravvissuti, la memoria è ancora viva, lucida, tremante. Gaetano Conte, tarantino, quel giorno portava con se' due amici - che oggi non ci sono più - e un ragazzo disabile, affidatogli dal Comune. Doveva essere una trasferta di passione, diventò un'odissea. "Avevamo i biglietti per la gradinata, ma fummo dirottati in curva, accanto agli hooligans, visibilmente ubriachi. Urlavano, minacciavano. Tra noi e loro, una rete fatiscente. Sentii che qualcosa sarebbe accaduto: misi in salvo il ragazzo, i miei amici, poi crollai. Penso di essere stato morto per due o tre minuti, prima di risvegliarmi vicino alla porta del portiere". Anche Picciotti era li', in viaggio di nozze, appena sposato il 18 maggio. Una tappa in Belgio, poi la Francia. Juventus in finale, impossibile resistere. "Ci organizzammo con amici bergamaschi. L'atmosfera la mattina era da sogno: scambi di sciarpe, di maglie, abbracci tra tifosi. Poi l'inferno. Lo stadio sembrava un campo dilettantistico: niente gradini, controlli strettissimi da un lato, birra a fiumi dall'altro. Ma fummo fortunati: finimmo in un settore tranquillo. Fu un tifoso di Pisa, lacero e terrorizzato, a raccontarci la verità: 'Di là ci sono morti'". Il tempo, da allora, per Picciotti ha cambiato senso. "Ogni anno, in questo giorno, sento di essere nato una seconda volta". Dino Morrone, altro bitontino, faticava a ricordare. Ma poi trova la forza e la restituisce in parole: "La finale, l'adrenalina, tutto si dissolse nel caos. Spesso, con i miei amici, ci diciamo: 'Potevamo essere noi nella lista': Ma io ho voluto superare quella tragedia. Ho continuato ad andare allo stadio: la Juve, certo, ma anche il Bari, in Serie A. Dentro, però, le vittime dell'Heysel non le ho mai dimenticate. Mai". Non hanno più potuto raccontare, invece, Alberto Guarini e Benito Pistolato. Alberto aveva 20 anni, era uno studente universitario di odontoiatria a Bari. Oggi, a Mesagne, lo stadio porta il suo nome. Benito, commerciante barese di 49 anni, partì lasciando la moglie e tre figli. Non tornò mai più. Quel giorno, all'Heysel, c'erano 58.000 spettatori. Tanti pugliesi, arrivati da ogni angolo del Tacco d'Italia, accomunati dal sogno di vedere la loro squadra del cuore sul tetto d'Europa. Il destino, però, li accolse con il fragore di un muro che crolla e il silenzio eterno che solo la morte sa fare. A distanza di quarant'anni, l'eco di quella tragedia ancora risuona tra le pieghe della memoria. Il tempo ha il compito di lenire, ma non di cancellare. E il calcio, che dovrebbe unire, ha il dovere di ricordare. Perché dietro ogni striscione, dietro ogni coro, ci sono volti, nomi, storie. Ci sono vite. E c'è una promessa che ogni testimone sopravvissuto rinnova ogni 29 maggio: non dimenticare.
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