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Politica
Ciccio Aiello, l'ultimo comunista. Intervista
Oggi 23-06-25, 12:14
La sinistra c’è ancora, e anche i poveri. Ma qualcosa si è perso: la profondità, la gravitas, la costruzione lenta della rappresentanza. Francesco “Ciccio” Aiello, 79 anni, l’ultimo comunista di Sicilia, sette volte sindaco di Vittoria, lo dice senza enfasi, ma con il peso di chi quella politica l’ha vissuta quando non passava per un algoritmo. Eletto sindaco per la settima volta nel 2021 con il 56% delle preferenze. Ex Pci, ex Pd, oggi civico per scelta e per difesa, è stato consigliere comunale a 24 anni, sindaco a 32, parlamentare regionale per quattordici anni, due volte assessore regionale all'Agricoltura (nei due governi guidati da Giuseppe Campione). Ha fatto tutto, tranne il funzionario. Quando Emanuele Macaluso gli propose di diventarlo, disse no. “Preferisco sbagliare con la mia testa.” Con il Partito Democratico ha rotto nel 2008, dopo uno scontro politico con i vertici locali. La testa, Aiello, se l’è costruita nella bottega di frutta e verdura dei genitori. Dopo la quinta elementare volevano che smettesse di studiare. Ma con forza di volontà e testardaggine ha continuato a studiare di nascosto, lavorando al mattino e leggendo la sera, fino alla laurea e all’insegnamento di italiano e latino nei licei. "La scuola è stata lo strumento che mi ha permesso di uscire dalla povertà e affermarmi." A Vittoria lo chiamano il “leone”. “Solo perché sono nato ad agosto” (sorride). Ma non è solo il segno zodiacale. Vittoria, in provincia di Ragusa, ospita uno dei più grandi mercati ortofrutticoli del Meridione: 246mila metri quadrati, decine di milioni di euro che si muovono ogni giorno e una criminalità che non è mai del tutto uscita di scena. Qui la pistola è ancora, a volte, la soluzione finale. E Aiello tiene. Parla in dialetto, discute nei bar, nei circoli, nelle campagne, e si ammanetta davanti agli uffici pubblici quando vuole far passare un messaggio. “Le ho ancora, le manette. Le comprai in un’armeria. Quando le parole non bastano più, servono i gesti”. Quando si insediò per la prima volta da sindaco, fece appendere nella sala delle riunioni del Comune una riproduzione del Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo. Un messaggio chiaro che resiste ancora dentro le mura di Palazzo Iacono. Della segretaria del Pd Elly Schlein parla con rispetto, ma anche con disincanto. “Ha un profilo, è una donna giovane, ma viene da un’altra storia. Non ha vissuto quella stagione in cui destra e sinistra si guardavano in faccia ogni giorno, nella stessa strada, negli stessi mercati.” Poi osserva: “Appartiene a una generazione diversa, in sintonia con un tempo nuovo, quello di Giorgia Meloni. Oggi emergono figure che si affermano con messaggi e progetti anche mediatici. Prima era impensabile. Ricordo Luigi Longo, segretario del Pci con due sopracciglia folte: come lo presenteresti oggi in Tv? Tutto è cambiato: linguaggio, tono, modo di fare politica.” Poi, il “leone” di Vittoria rivendica un approccio umano alla politica. “Ho avuto la fortuna di non personalizzare mai le cose. Ero del Pci, figlio di un operaio, ma il mio miglior amico era figlio di un barone. E anche il barone, allora come oggi, era una brava persona. Non c’era odio di classe, né rifiuto verso chi era diverso. Alla fine contano le persone, poi vengono le idee, la cultura, l’ideologia. La contrapposizione personale non mi ha mai interessato. Lo sapevano tutti che ero comunista, ma non dava fastidio a nessuno. E nemmeno io mi sentivo infastidito dagli altri. Se poi si parlava di politica o di ideologia, ognuno diceva la sua. Ma sempre da amici, anche scherzandoci su". Cos’è rimasto della sinistra dove lei ha piantato i piedi? “Molto poco. C’era un movimento vero, forte. La gente si iscriveva ai partiti perché voleva cambiare le cose, e lo faceva. A Vittoria la terra si acquistava, non si occupava come nella Sicilia occidentale. Questo creava una dinamica nuova: il bracciante poteva comprarsi un pezzo di terra, mettere su un’azienda, costruire qualcosa per sé e per i figli. Il Pci discusse allungo se fosse giusto appoggiare questo passaggio alla proprietà. C’era chi lo temeva come una deriva borghese e all’interno del Movimento Contadino Operaio Vittoriese convivevano due anime: una massimalista, che voleva restare bracciante e difendere il salario e una riformista. Paradossalmente, furono proprio le lotte dure dei massimalisti, come lo sciopero di quindici giorni, a costringere i grandi proprietari a vendere". E continua Aiello: “Abbiamo scelto di accompagnare quel cambiamento. Con lotte vere, tensione e scioperi. Così si è trasformata una classe sociale. Non con i post sui social”. Poi distingue i tempi: “Un tempo l’elezione del segretario era come un conclave. Si costruiva un percorso. Berlinguer fu questo: una figura di rottura, ma maturata nel tempo, nel partito, nella realtà. Oggi si esce da un algoritmo, si entra in studio televisivo e si diventa segretari.” Il rischio, per Aiello, è di costruire “una sinistra da editoriale sui grandi giornali, che si entusiasma per i diritti civili ma dimentica le bollette, i turni, la fatica, la povertà che non è sparita, è diventata invisibile. La gente non si convince con un post sui social. Si convince se ci sei, se ti vede.” Perché oggi nessuno scende più in piazza? “Perché la gente non ci crede. Perché quelli che parlano dei tuoi problemi parlano come i padroni. E poi – dice – servirebbero tre vite: una per capire, una per lottare e una per sperare di cambiare. Ma la gente ne ha solo una, e deve usarla per tirare avanti.” Sul flop del referendum proposto dalla Cgil e appoggiato dal Pd, è netto: “Cinque quesiti. Ma chi li capisce? Serviva una settimana per capire ogni singolo punto. Un referendum è una cosa seria. Serve una scelta netta, chiara. Bianco o nero. Repubblica o monarchia, divorzio sì o no. Così invece sembra solo una scocciatura per addetti ai lavori.” “Ciccio”Aiello non è un nostalgico, è un resistente. Pur cresciuto dentro il Pci non parla di ideologie, parla di lavoro, scuola, sanità e strade. “La politica oggi parla una lingua che la gente non capisce più. È troppo tecnica o troppo slogan. E se la gente non ti capisce, non ti vota.” Lui invece lo votano ancora. Perché è nei mercati, nelle serre, nelle aziende. “Il Pd mi ha appoggiato nelle ultime elezioni, ma non mi ha mai comandato.” Qual è la sua ricetta per fare sette volte il sindaco? “Serve il lievito madre per costruire una comunità, non solo consenso. Non mi stancherò mai di dirlo: bisogna tornare dove la sinistra si è dimenticata di stare.” Aiello conobbe Berlinguer nel ’79. Lo accompagnò in macchina da Punta Secca (Santa Croce Camerina) a un comizio a Vittoria, piazza piena come mai. Fu proprio Berlinguer a candidarlo, poco dopo, alla Regione Siciliana. Quando si incontrarono, Berlinguer gli chiese solo una cosa: “Quanti asili, consultori, servizi avete in questa città?” Non delle correnti. E forse anche per questo il “leone” di Vittoria non è mai riuscito a stare davvero dentro un partito. “Non ho mai voluto perdere la mia libertà politica. Non ho mai voluto che fosse il partito a decidere per me". Sindaco, come vorrebbe essere ricordato? Aiello si alza dalla scrivania, prende il suo ultimo libro di poesie pubblicato nel 2024, Il segno e la memoria – poesie per sopravvivere, e mi legge Sino alla fine: "Quando non ci sarò più tra di voi... per le strade, a fare la spesa o dal barbiere per il ritocco di giornata, non citatemi per favore con discorsi barbosi e incomprensibili... Parlate invece del freddo di febbraio, dei piedi gonfi di geloni e i sacchi di iuta per cappotto. Di questo dovete parlare. Perché sono ancora lì, accanto a voi, fuori per le strade delle orrende migrazioni e la paura”. “Così voglio essere ricordato”, conclude Aiello.
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