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Economia e Finanza
Il dilemma della decontribuzione. Meloni e Giorgetti prigionieri della loro misura di successo
20-06-2024, 05:00
“È un impegno assolutamente inderogabile e lo confermeremo” ha detto Giancarlo Giorgetti a proposito del taglio del cuneo fiscale, a margine della presentazione del Rapporto sulla politica di bilancio dell’Upb. Il ministro dell’Economia ha specificato che non verrà finanziato in disavanzo: “I deficit sono quelli che abbiamo indicato nella Nadef e nel Def, e che intendiamo assolutamente rispettare”. Ecco quindi i due paletti del governo per la prossima manovra: proroga della decontribuzione, che costa circa 11 miliardi, e niente scostamenti dai saldi promessi a Bruxelles, anche perché proprio ieri la Commissione Ue ha aperto un’annunciata procedura per deficit eccessivo nei confronti dell’Italia. All’interno di questo quadro contingente, però, è interessante guardare a un capitolo del denso rapporto dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) che mette in prospettiva l’evoluzione della tassazione e in particolare dell’Irpef nell’ultimo decennio. Il primo dato generale è che negli ultimi venti anni in Italia la pressione fiscale è aumentata di circa 3 punti (dal 39,6% a 42,7%), un punto sopra alla media europea. Con riferimento alla sola Irpef e alle riforme che si sono susseguite nell’ultimo decennio, l’Upb evidenzia due trend: da un lato la progressiva erosione della base imponibile, che ha portato molti redditi fuori dall’imposta (cedolare secca sugli affitti, esenzione per gli agricoltori e la cosiddetta flat tax per gli autonomi progressivamente estesa fino a 85 mila euro di ricavi); dall’altro lato una serie di interventi volti a ridurre le aliquote sui redditi da lavoro dipendente “intrappolati” nell’Irpef. La prima modifica è stata il Bonus 80 euro, introdotto nel 2014 dal governo Renzi, che ha dato circa 10 miliardi a 10 milioni di persone sotto i 24 mila euro di reddito (con un ripido décalage fino a 26 mila). L’ultima è stata il cosiddetto “primo modulo” della riforma fiscale, introdotto dal governo Meloni, per ora annuale ma da confermare nella prossima legge di Bilancio, che ha ridotto di 2 punti l’aliquota del secondo scaglione (15-28 mila euro) accorpandolo al primo. Nel mezzo ci sono state le riforme dei governi Conte e Draghi che, con un costo di circa 7 miliardi l’una, hanno i rimediato alle storture del bonus Renzi che in prossimità della soglia superiore faceva scattare aliquote marginali altissime (80%) che distorcevano l’offerta di lavoro ed erano un ostacolo per gli accordi sui rinnovi contrattuali. Il dato sorprendente dell’analisi dell’Upb è che, a causa del fiscal drag (l’aumento delle imposte dovuto all’interazione tra inflazione e sistema fiscale progressivo), dopo dieci anni di tagli di Irpef i lavoratori ne pagano più di prima. In pratica, il drenaggio fiscale – che si è intensificato con la fiammata inflattiva degli ultimi anni – si è mangiato tutte le riduzioni delle aliquote: “A parità di potere d’acquisto, nel 2024 i lavoratori dipendenti pagano aliquote medie generalmente superiori a quelle che si pagavano nel 2014”, scrive l’Upb. Un lavoratore dipendente oggi paga dai 321 euro (10 mila euro di reddito) a 1.020 euro (100 mila euro di reddito) in più di Irpef rispetto a dieci anni fa. Questo fenomeno è stato contrastato dalla decontribuzione, che il governo Draghi ha introdotto inizialmente a 0,8 punti, per poi alzare a 2 punti, e che infine il governo Meloni ha portato a 7 e 6 punti rispettivamente fino a 25 mila e a 35 mila euro di reddito. Come ha certificato l’Upb, in un’altra analisi dello scorso novembre, lo sgravio contributivo ha aumentato la progressività del sistema fiscale e ha più che compensato il fiscal drag: i redditi medio-bassi hanno quindi, tra Irpef e contributi, pagato meno tasse. Ma se il forte sgravio contributivo ha risolto un problema ne ha creati altri due. Il primo è la riproduzione, in forma più accentuata, dei difetti del Bonus Renzi. Perché al superamento delle soglie, le aliquote marginali sono ben superiori al 100%: l’aumento di un solo euro di reddito fa perdere 150 euro superati i 25 mila euro lordi e 1.100 euro superati i 35 mila euro lordi. Guadagnare di più fa perdere un sacco di soldi. Se quindi la decontribuzione è stata utile come provvedimento temporaneo, diventa molto problematica come misura strutturale. Perché fortemente distorsiva, soprattutto in una fase come questa dove sono in discussione numerosi rinnovi contrattuali (si pensi solo a quello dei metalmeccanici): un problema in più per le relazioni industriali e la contrattazione collettiva. Il secondo problema è il finanziamento visto che, come ha detto il ministro Giorgetti, il governo vuole confermare la misura. Con il Bonus 80 euro, i governi successivi hanno risolto il problema delle aliquote marginali disegnando degli scivoli a favore dei redditi sopra la soglia, quindi estendendo i benefici: è il caso sia della riforma Conte del 2020 sia della riforma Draghi del 2021 (costo complessivo: 14 miliardi). Ma in questo caso è impossibile, dato che il governo deve già trovare 11 miliardi per prorogare la decontribuzione. Dove trova gli altri per allungare uno scivolo al posto dello scalone che scatta a 35 mila euro? Una soluzione era comparsa l’anno scorso, in un comunicato del Mef modificato retroattivamente e poi rimosso: prevedeva una rimodulazione del taglio del cuneo contributivo a scalini: 7 punti percentuali fino a 15 mila euro di retribuzione, 6 punti tra 15 mila e 28 mila, 5 punti tra 28 e 30 mila, 4 punti fra 30 mila e 32 mila, 3 punti tra 32 mila e 35 mila. Il Mef si rimangiò quella formula perché, sebbene un po’ più sensata e meno distorsiva, riduceva lo sgravio anziché confermarlo. Così ora il governo Meloni è vittima della sua misura di successo: non ha i soldi per migliorarla ampliandola e non vuole pagare il prezzo politico per migliorarla riducendola. Al massimo spera di confermarla, anche se “da un lato indurrebbe un forte disincentivo al lavoro – scrive l’Upb – e dall’altro renderebbe più difficile raggiungere nuovi accordi contrattuali”.
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