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Sport
Il Tour de France secondo Eric Fottorino
13-07-2024, 05:01
Voleva fare il corridore, magari da campione. E’ diventato giornalista, addirittura da direttore (“Le Monde”), e scrittore. Ma non ha mai smesso di pedalare, Eric Fottorino, perché certe voglie le hai dentro, anche nelle gambe. “Piccolo elogio della bicicletta” è un grande inno al ciclismo. Lo ha scritto nel 2007, al 2009 risale la traduzione italiana per Excelsior 1881 (126 pagine, 10,50 euro). La differenza fra bicicletta e ciclismo ce l’aveva chiarita Philip Delerm (“Agli uni l’ampiezza… agli altri l’aderenza…”, “Si nasce bicicletta o ciclismo, è quasi politico”), ma Fottorino sembra essere nato bicicletta e trasformatosi in ciclismo. “Pedalo sempre e da sempre. Lungo i rettilinei e le curve che dall’infanzia portano a un’età considerata adulta, con una piccola bicicletta in testa che non smette di farmi girare in tondo su questa terra tonda, come se la vocazione principale della bicicletta fosse smussare gli angoli del mondo”, “Il mio percorso ciclistico è una linea della vita su una macchina del tempo che viaggia solo a ritroso. Più pedalo e più ricordo. E’ uno degli incantesimi della bicicletta quella di riportarmi indietro mentre avanzo, non sempre veloce ma di buona lena. Elogio primigenio, fondante, eterno: la bicicletta è un gioco infantile che dura a lungo”, “Bisogna ammetterlo: i miei primi, diligentissimi scritti non furono letterari, ma appassionatamente ciclistici. Per quanto mi riguarda, ormai da molto tempo ho la riprova del fatto che la bicicletta è una modalità di scrittura dell’esistenza. Allora però ignoravo che avere fiato, saper scrivere e, preferibilmente, pesare poco è il destino di quei confratelli che sono sia ciclisti sia scrittori”. Nato nizzardo l’anno (1960) della morte di Coppi (“Ero senz’ombra di dubbio la reincarnazione di Fausto…”), ribattezzato dai passanti Robic o Bobet o Anquetil o Poulidor (“Epiteto che interpretavo come ‘poulie d’or’, puleggia d’oro, credendolo riferito alle mie pedalate vigorose”), ispirato da Merckx e Ocana (“La corrida prometteva di ripetersi estate dopo estate, di vittoria in vittoria per Merckx, di caduta in cedimento per Ocana”), Fottorino elogia Charly Gaul (“Era l’ometto della pioggia con lo sguardo alla Buster Keaton che prediligeva il brutto tempo per compiere le sue imprese da scalatore senza pari”), ma anche Arsène Millocheau (“Il primo ultimo, se così si può dire, della storia del Tour, concludendo la prova 64 ore, 27 minuti e 8 secondi dopo il vincitore”), e contemporaneamente “un popolo di corridori fantasma”, “era il 1993. A un raduno di cicloamatori si erano uniti due pericolosi infiltrati: Louis Nucera, che pedalava puro, e José Giovanni, che pedalava duro. Devo ammetterlo: soffrii nella loro scia, ma strinsi i denti e mi tenni le correnti d’aria mentre i due vecchietti, impugnando il manubrio come le corna di un toro, trovavano ancora modo di scambiarsi citazioni letterarie”. Fottorino è folgorante: “Quando pedala sulla strada sotto gli occhi del pubblico, il corridore è un re. Tutti gli sguardi, tutti i riguardi sono per lui. Poi la strada fa una curva, un’immagine per dire che il tempo passa. Il corridore diventa gloria vecchia, rientra nel gruppo”. A quasi 41 anni, Fottorino si è tolto una voglia enorme, quella di essere un corridore-scrittore, partecipando al Grand Prix del Midi Libre, “sei giorni d’inferno e paradiso”, partendo prima e arrivando dopo i professionisti. “Tra loro ho riconosciuto Jimmy Casper. Superandomi, mi ha invitato ad approfittare della scia. L’ho lasciato passare senza reagire. Era troppo presto. Ho pensato: mancano ancora cinque giorni di corsa, vedremo come me la cavo in montagna. La mattina, Jimmy mi aveva consigliato di portarmi una sciarpa per il momento in cui il grosso dei corridori mi avrebbe superato. Uno scherzo da ciclisti: quando ci si fa passare da un gruppo veloce, si dice che ci si fa ‘venire il raffreddore’”, “Mi hanno protetto, incoraggiato, riparato quando il vento faceva sibilare le nostre biciclette proprio come dei catamarani”, “A volte, la strada è un tracollo. Succede senza preavviso. Un fondo più ruvido, un falsopiano che non ci si aspettava, vento contrario, morale improvvisamente a terra, bisogna ripartire, ‘alzare il culo dal sellino’, prendere in pugno la bicicletta per strapparla via di là, e mi attraversa, fuggevole, il pensiero che Pézenas è ancora lontana, che adesso ho la sensazione di ricevere dei colpi di spillo nella schiena, brutta cosa, i colpi nella schiena”. Nella sua corsa indietro nel tempo, Fottorino cita una battuta dal film “Il favoloso mondo di Amélie”: “L’amore è come il Tour de France. Uno lo aspetta a lungo e poi passa in fretta”. E riporta anche una confidenza della romanziera Alice Ferney: “Mio marito mi aveva detto che c’era qualcosa di straordinario nel ciclismo. Ho voluto capire”, “Sono andata a vedere. Non so dire perché, ma quando il plotone mi è passato davanti, sono scoppiata a piangere”. Ecco.
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