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Estero
Kara-Murza racconta la sua liberazione dalle galere di Putin e l’occidente che difende la vita
31-08-2024, 04:53
Quando un gruppo di agenti ha fatto irruzione nella mia cella alle tre del mattino del 28 luglio, mi ha detto di alzarmi e prepararmi entro dieci minuti, il mio primo pensiero è stato: mi porteranno fuori per giustiziarmi. Era uno scenario fin troppo plausibile perché era successa una cosa bizzarra all’inizio della settimana: un importante funzionario del carcere mi aveva accompagnato nel suo ufficio e mi aveva detto di firmare una richiesta di grazia indirizzata a Vladimir Putin, con tanto di ammissione di “colpa”. Gli avevo detto che non avrei mai chiesto nulla a Putin – tanto meno la “grazia” – perché lo considero un usurpatore e un assassino, non un presidente legittimo; e perché i veri criminali sono quelli che hanno scatenato la guerra in Ucraina, non quelli di noi che la contrastano. Il funzionario non sembrava soddisfatto e mi chiese di mettere tutto per iscritto. Lo feci volentieri, e aggiunsi anche che speravo di vedere Putin un giorno processato per tutti i suoi crimini. Questa era stata la mia ultima interazione con i funzionari della prigione di Omsk prima del risveglio imprevisto di quella domenica. Invece del vicino bosco, il convoglio della prigione mi ha portato all’aeroporto e mi ha scortato, in manette, su un aereo diretto a Mosca. L’anno scorso c’erano volute tre settimane in angusti “vagoni Stolypin” per portarmi da Mosca alla Siberia; il viaggio di ritorno è durato solo tre ore. E’ iniziato così un viaggio più adatto a un film d’azione hollywoodiano che alla realtà della Russia di oggi; un viaggio che ancora oggi sembra irreale come quando si è svolto. La nostra destinazione era Lefortovo, la famigerata prigione del Kgb che un tempo ospitava Alexander Solzhenitsyn, Vladimir Bukovsky, Natan Sharansky e altri oppositori del regime sovietico. Dopo la mia prigionia a Omsk, mi è sembrato un luogo di villeggiatura: nessun limite di tempo per leggere o scrivere; nessun divieto di sdraiarsi sul letto; nessun rimprovero costante per immaginarie “violazioni”. Ciò che mi metteva a disagio era l’incertezza: nessuno mi spiegava perché mi trovavo a Lefortovo né per quanto tempo sarei rimasto lì. Quando chiesi a un capitano della prigione di comunicare alla mia famiglia e ai miei avvocati che ero stato trasferito a Mosca, mi sorrise: “Non sei a Mosca, Vladimir Vladimirovich. Sei ancora a Omsk”. Questo non chiarì esattamente le cose. Dopo lo scambio, molti giornalisti mi hanno chiesto quando ho saputo che stava per avvenire. La risposta è una: solo la mattina del primo agosto, poco prima che succedesse. Per essere precisi: nel momento in cui gli agenti di un’unità speciale dell’Fsb, muniti di passamontagna, mi hanno scortato su un autobus parcheggiato nel cortile interno di Lefortovo, dove ho visto amici e compagni prigionieri politici, tra cui il politico dell’opposizione Ilya Yashin, l’attivista per i diritti umani Oleg Orlov e l’artista Alexandra Skochilenko, tutti imprigionati a causa della loro opposizione alla guerra in Ucraina. Ci poteva essere solo una ragione per cui ci trovavamo tutti sullo stesso autobus. Il film è andato avanti, troppo veloce perché la mente umana potesse elaborarlo, soprattutto dopo mesi di isolamento. Un viaggio vorticoso attraverso Mosca con una scorta di polizia; un jet Tupolev pronto nell’ala riservata al governo dell’aeroporto di Vnukovo; gli stessi agenti dell’Fsb seduti accanto a ogni prigioniero sul nostro diretto in Turchia. Lo scambio è durato meno di un’ora: i prigionieri russi sono stati imbarcati su una serie di autobus e quelli che Putin riceveva in cambio dall’occidente – le sue spie, i suoi hacker e i suoi assassini – sono saliti sull’aereo russo da un altro autobus. “Welcome to freedom”, sono state le prime parole di Jens Plötner, il consigliere per la Sicurezza nazionale del cancelliere tedesco Olaf Scholz, che ci ha accolto nel terminal. E proprio quando pensavo che le cose non potessero essere più surreali, un diplomatico dell’ambasciata americana mi ha avvicinato con un cellulare in mano e mi ha detto che il presidente degli Stati Uniti era in linea. Accanto a lui, ho sentito le voci di mia moglie e dei miei figli, che mi era stato proibito di chiamare dalla prigione per più di due anni. Non ho parole, in nessuna lingua, per descrivere la sensazione. Lo scambio di Ankara è stato storico sotto molti aspetti. E’ stato il più grande scambio di prigionieri tra est e ovest dai tempi della Guerra fredda ed è stato solo il quinto nella storia a liberare non solo ostaggi occidentali ma anche prigionieri politici dalla prigionia sovietica o russa. Una cosa è parlare di libertà e diritti umani – molti leader occidentali pronunciano queste parole. Un’altra cosa è fare davvero qualcosa per proteggerli. Poche cose dovrebbero essere più importanti per una democrazia della vita umana; e con questo scambio, i governi statunitense e tedesco hanno salvato 16 vite dall’inferno del gulag di Putin. Se c’è una ragione per cui il presidente Joe Biden e il cancelliere tedesco Olaf Scholz saranno ricordati tra qualche anno, è questa. Ma molti altri sono ancora là. La Russia di oggi tiene in galera più di mille prigionieri politici – tanti perché si sono opposti alla guerra in Ucraina. Ripiegano ancora le loro cuccette alle 5 del mattino; camminano ancora in cerchio nei piccoli cortili della prigione coperti da tetti; non possono ancora parlare con i loro cari. Molti sono in gravi condizioni di salute e la loro situazione sta diventando urgente. Lo scambio del 1° agosto ha dimostrato che il mondo libero si preoccupa e che, contrariamente agli stereotipi, c’è ancora spazio per la decenza e i valori nella politica internazionale. Non dobbiamo permettere che questa diventi un’eccezione – e non dobbiamo avere tregua finché anche gli altri prigionieri ingiustamente imprigionati dalla dittatura di Putin non saranno a casa, di nuovo con le loro famiglie. Copyright Washington Post
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