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Estero
La rotta artica è già compromessa
07-02-2025, 06:01
La pace nell’Artico è finita definitivamente tre anni fa. Con l’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia, gli equilibri in una delle aree più strategiche del mondo sono cambiati, anche all’interno dell’istituzione più importante dell’area, il Consiglio artico, costituito oltre che da alcuni osservatori dagli otto paesi che hanno sovranità: Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Russia, Stati Uniti e Svezia. Negli ultimi tre anni, man mano che Mosca si mostrava sempre meno disposta a cooperare nell’Artico con le altre potenze, progressivamente si avvicinava alla Repubblica popolare cinese, che già dal 2018 ha mire d’influenza ben precise nella regione. Come durante il periodo della Guerra fredda, la militarizzazione dell’Artico è già iniziata. Ma non è soltanto una questione di deterrenza strategica: chi ha più potere nella regione polare ha più controllo sulla rotta artica e sulle nuove vie di comunicazione che si andranno a formare sempre di più a causa dello scioglimento dei ghiacciai. In un lungo articolo pubblicato lunedì scorso, il Wall Street Journal ha scritto che la Russia e la Cina stanno già avendo la meglio sull’Artico. Uno dei principali motivi è che hanno capito prima di America e Canada (e dell’Europa) che quella regione sarebbe stata estremamente importante per lo sfruttamento delle risorse naturali – l’Artico abbonda di risorse come gas, minerali, petrolio – e per controllare i traffici marittimi – ormai lo sappiamo, la Northern Sea Route, quando si aprirà, offrirà un’alternativa più economica al Canale di Suez riducendo i tempi di transito di nove giorni. La Russia, con l’aiuto della Cina, ha tutto l’interesse a militarizzare il “giardino di casa” dei territori dell’estremo nord americano e canadese: entro i prossimi venticinque anni, gli scienziati prevedono che la Northern Sea Route sarà una delle rotte di navigazione più efficienti tra Asia ed Europa. E’ anche per questo che il presidente americano Donald Trump, sin dal suo insediamento poco più di due settimane fa, ha più volte parlato della Groenlandia e delle sue “influenze esterne” come di un problema di sicurezza nazionale per l’America. L’ha fatto alla maniera di Trump, un po’ inaspettato anche per il governo della Danimarca – a cui appartengono territorialmente sia le Isole Faroe sia la Groenlandia, sebbene con moltissima autonomia – e senza “escludere l’uso della forza” (naturalmente aprendo una serie di problemi, per ora soltanto retorici, sulle simili espressioni di leader autoritari come Vladimir Putin e Xi Jinping per giustificare l’invasione di regioni di loro interesse). Ma prima delle dichiarazioni di Trump sulla “annessione”, quello delle influenze e della militarizzazione dell’Artico da parte di Russia e Cina era considerato un problema marginale, di nicchia, da riviste di geopolitica, e non un concreto allarme per la sicurezza. La Groenlandia, punto d’accesso alla regione artica, è piena di risorse minerarie, ed è corteggiata da diversi investitori da anni, ma soprattutto dalla Repubblica popolare cinese che vorrebbe costruire la sua Via della seta artica. Un anno e mezzo fa la Casa Bianca di Biden ha pubblicato un documento sulla Strategia artica, nella quale rafforzava la presenza americana – quantomeno diplomatica – a Nuuk, nella capitale della Groenlandia. Grazie a quel rinnovato interesse americano il governo locale di Nuuk cancellò il progetto di far costruire alla Cina tre aeroporti. Subito dopo anche l’Unione europea si è mossa, anche con un viaggio inedito della commissaria Ursula von der Leyen nella Terra verde. La charm offensive cinese non ha funzionato, grazie anche all’intervento diplomatico occidentale, e per avere accesso all’Artico Pechino non ha potuto far altro che rassegnarsi all’alleanza con la Russia. Fino a cinque anni fa le ambizioni artiche di Pechino e Mosca erano molto lontane: per il Cremlino l’intera regione è affar di Mosca, e le pressioni cinesi erano mal tollerate. Poco prima dell’inizio della guerra in Ucraina, le autorità russe avevano addirittura arrestato lo scienziato esperto di Artico Valery Mitko con l’accusa di passare segreti militari a Pechino. Ma poi il contesto è cambiato e la Russia è stata costretta a trovarsi nuovi alleati: potenti e con la capacità di sfidare l’ordine globale. Il primo cambio di passo c’è stato nell’agosto del 2023, pochi mesi dopo la crisi dei palloni-spia cinesi che sorvolavano l’America e il Canada, quando undici navi russe e cinesi si sono avvicinate all’arcipelago in Alaska delle Isole Aleutine, una delle prime azioni di pattugliamento congiunto e show di forza davanti alle acque territoriali americane. Poi, il 24 luglio scorso, America e Canada hanno intercettato due bombardieri cinesi Xian H-6K e due bombardieri russi Tu-95MS Bear con capacità nucleari in volo vicino all’Alaska. Infine quattro mesi fa c’è stata la prima esercitazione congiunta tra le Guardie costiere cinesi e russe nel Mare di Bering. Mentre Russia e Cina rafforzano enormemente la loro cooperazione di sicurezza nell’Artico, “il Nord America manca di infrastrutture militari nel suo estremo Nord”, scrive il Wall Street Journal. America e Canada nel 1958 hanno creato il Norad, un comando congiunto che serviva a monitorare le minacce artiche dell’Unione sovietica, ma che oggi si affida a tecnologie considerate obsolete. Anche dal punto di vista delle rotte commerciali, e quindi di una presenza civile nell’estremo nord, America e Canada non hanno massimizzato la loro presenza: “Gli Stati Uniti non dispongono di porti artici in acque profonde in grado di ospitare navi portacontainer pesanti”, scrive il quotidiano. “La maggior parte dell’Alaska non ha strade o linee ferroviarie, il che complica l’accesso” alla regione. E invece secondo i dati sul traffico marittimo di Rosatom, l’agenzia russa dell’energia, nel 2024 si sarebbe registrato un volume record di merci in transito attraverso la Northern Sea Route, dalla Russia nordoccidentale allo Stretto di Bering. Mosca costruisce infrastrutture energetiche nell’Artico grazie agli investimenti e alle forniture cinesi, e in cambio offre petrolio e traffici attraverso la sua numerosa flotta ombra – ne abbiamo sentito parlare perché quelle stesse navi sono sospettate di alcuni episodi di sabotaggio nel Mar Baltico. Qualche mese fa per la prima volta Pechino ha inviato tre navi rompighiaccio nella regione artica, la Russia ne possiede più di trenta, mentre gli Stati Uniti e il Canada hanno solo iniziato a parlare di acquistarne congiuntamente altre per sorvegliare la regione – l’America possiede solo tre navi rompighiaccio, di cui una vecchia di cinquant’anni. Secondo alcuni osservatori, l’azzardo di Trump sulla Groenlandia è sicuramente parte di un suo metodo negoziale, ma rischia di sviare l’attenzione sulle reali necessità d’investimenti per mettere in sicurezza la navigabilità delle rotte artiche, e salvarle dall’influenza russo-cinese e dalle dispute territoriali che, in caso di debolezza, si risolverebbero facilmente a favore di Mosca e Pechino. Nel frattempo, per il Wall Street Journal “la Russia sta già vincendo la gara per dominare l’Artico”.
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