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Mezza Serie A in mano è agli stranieri. Ma chi garantisce sulla qualità?
08-06-2024, 08:42
L’ultima a varcare la porta è stata il Venezia. Buongiorno, Serie A: siamo americani, c’è posto? Prego, ce ne sono già altri. Anzi, dividiamoci così: le squadre con proprietà italiana da una parte, quelle con proprietà straniera dall’altra, dieci di qua, dieci di là. Ecco, la novità è questa: nel prossimo campionato la metà delle società farà riferimento a padroni che vengono da oltre confine, quasi tutti americani, e che all’estero hanno la loro testa e qui provano a mettere qualche volta un pezzo di cuore, ma più spesso un bel po’ di interessi. Cambia il vento e pure noi, quelli che una volta venivano definiti “ricchi scemi” – proprietari di club con molto denaro e non moltissimi strumenti intellettuali, ma veri e propri padroni delle squadre – hanno salutato molti anni fa, le gestioni padronali delle società sono un numero ristretto (sono rimasti De Laurentiis, Lotito e Cairo a gestire quasi in prima persona) e l’evoluzione in una forma spinta di business ha soppiantato il concetto di frontiera, buono o cattivo che sia. Quindi, arrivano gli altri, che sono la metà dei nostri. Arriva il Venezia del presidente Duncan Niederauer, ex capo di Wall Street, una carriera in Goldman Sachs, che controlla la società con la Vfc Newco 2020, compagine di investitori composta da sei soci, cinque statunitensi e Ivan Cordoba, ex difensore colombiano dell’Inter. Un americano (come quasi tutti gli altri) che investe nello sport dopo aver accumulato un patrimonio stimato intorno agli 1,3 miliardi. Innamorato di Venezia, ha deciso di fare grande la squadra, sentirla sua (spesso lo si trova in curva, in tuta sociale e con una birra in mano), internazionalizzarla (più del 90 per cento del merchandising è venduto tra Stati Uniti, Corea, Regno Unito, Germania, Giappone), pur senza conoscere, almeno inizialmente, il calcio. Arrivano i soldi (così pare) e tutti sono felici. Come quel macellaio americano che, nel 1812, durante la guerra degli Stati Uniti contro gli inglesi, inviava casse di carne alle truppe americane. Sulle forniture c’era stampato il marchio U.S., che stava per United States, era la provenienza del cibo. Ma il fornitore dei soldati si chiama Samuel Wilson e questi decisero che U.S., il marchio, voleva dire Uncle Sam, lo zio Sam, emblema poi dell’America, ma anche sinonimo del ricco che mette i propri averi al servizio di qualcuno. Gli zii dei giorni nostri portano il pallone, invece della carne. Poco prima del Venezia, in Serie A era arrivato il Como dei fratelli Budi e Bambang Hartono, indonesiani tra i più ricchi del mondo (48 miliardi di patrimonio) che sono partiti dalla D, hanno allargato la base (tra i soci del club c’è anche Thierry Henry) e coltivano sogni di grandezza: già riportare la squadra in paradiso dopo ventuno anni in realtà lo è. Prima ancora delle due c’è stato il Parma, che di storie di proprietari spericolati della società può raccontarne qualcuna, ma che ora ha una bandiera a stelle e strisce sempre pronta per ringraziare Kyle Krause, proprietario dal 2020 del club e nel quale investe il suo patrimonio frutto della catena di minimarket ereditata dalla famiglia e della successiva diversificazione del business che ha permesso la creazione di un impero, nel quale lo sport non è settore secondario. Non c’è una possibilità di scelta, a volte, tra proprietà italiana o straniera. Per alcune di queste società l’investitore straniero, nei momenti storici in cui è arrivato, avrebbe avuto come seconda opzione il nulla, forse la sparizione. Poi alcuni vengono, investono, vincono pure. Le tre neopromosse (tutte italiane le proprietà delle retrocesse in B: Salernitana, Sassuolo e Frosinone) non si sentiranno sole in Serie A, perché ce ne sono altre sette controllate da imprenditori, investitori, fondi e cordate che arrivano da fuori. L’Inter ha da poco cambiato bandiera: il fondo americano Oaktree è subentrato alla famiglia Zhang, impossibilitata a restituire il maxi debito. Per italianizzarsi, poi, il fondo ha subito dato la presidenza a Marotta, anche perché il calcio è un investimento, la gestione meglio affidarla. Come l’Inter, è straniero il Milan, di proprietà di un altro fondo, RedBird. E anche l’Atalanta, che con la famiglia Percassi sembra italianissima, è al 55 per cento di Joseph Pagliuca, di intuibili origini italiane, a capo di una cordata che è proprietaria anche dei Boston Celtics. E il Bologna, che quest’anno nel campionato italiano ha incantato, ha Joey Saputo, figlio di un emigrato siciliano, come presidente: vive facendo spola tra il Canada e l’Emilia. Dicono i fatti che cambiando la nazionalità dei proprietari si può fare meglio che con le italiane, se si pensa che Milan e Inter hanno vinto tre degli ultimi quattro scudetti, l’Atalanta la sua prima Europa League, il Bologna è andato in Champions League dopo trent’anni e delle tre neopromosse si è già detto. La Fiorentina, invece, due volte ci è andata vicina: due finali di Conference League consecutive perse, due volte il dispiacere raccontato dall’accento calabroamericano di Rocco Commisso, che nel calcio ha investito anche con i New York Cosmos; la Roma con i Friedkin ha vinto una Conference e sfiorato un’Europa League. Ma non è sempre così: l’Inghilterra, che di proprietà straniere ne ha quindici su venti, quest’anno non è andata oltre il confine, il risultato per fortuna è ancora affidato all’arte dell’imprevisto. Poi, certo, le proprietà contano, lo zio Sam che manda la carne ai soldati li rende felici nell’immediato, ma chi garantisce, sempre, sulla qualità della carne? A volte si entra in un mondo che non sempre è trasparente, in una sfilza di società non sempre dotate di sentimenti (vale per tutti la rottura tra Maldini e il Milan, che è un po’ la rottura del Milan con sé stesso) o con qualche punto interrogativo: ad esempio, il Genoa è di proprietà del fondo 777 Partners, che possiede sei società, ha una quota minoritaria in una settima e ha cercato di prendersi l’Everton in Premier League, ma lì qualcosa ha cominciato a non quadrare, i tempi per l’accordo sono scaduti e la trattativa è saltata: un castello di carte, hanno definito gli inglesi il fondo. A Genova, ancora, no. Ma meglio non fidarsi.
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