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Economia e Finanza
Oro rifugio: prezzo raddoppiato in due anni. È l’alternativa al dollaro per le banche centrali
Oggi 01-11-25, 06:40
Il prezzo dell’oro è raddoppiato negli ultimi due anni. Pochi altri investimenti hanno reso di più del metallo giallo. Nell’ultima settimana la corsa si è arrestata, con una correzione al ribasso di circa il 10 per cento. Evidentemente c’è bisogno di una pausa di riflessione per capire se un livello superiore a 4.000 dollari all’oncia sia sostenibile e giustificato dai fondamentali. Il problema è che non è chiaro quali siano le variabili che influenzano il prezzo dell’oro. Storicamente, l’oro è stato una delle migliori protezioni contro l’inflazione. Nella seconda metà degli anni Settanta, quando l’inflazione era a due cifre, l’oncia quadruplicò il proprio valore (da 180 a 700 dollari), per poi calare nella fase di deflazione dei primi anni Ottanta. Le quotazioni sono risalite a partire dal 2005, con la bolla finanziaria, e hanno continuato a salire anche dopo la grande crisi del 2008-09, fino all’intervento risolutivo della Bce che mise fine alla crisi dell’euro. L’ultima fase di forte crescita ha preso avvio prima del Covid ed è proseguita fino ai giorni scorsi. Anche dopo il rientro dell’inflazione dai picchi del 2022. Evidentemente gli investimenti in oro non sono più motivati solo dalla paura dell’inflazione. I dati mostrano che i maggiori detentori sono le banche centrali, soprattutto quelle dei paesi emergenti. In prima fila c’è la Cina, che negli ultimi anni ha acquistato metallo giallo a un ritmo tra le 800 e le 900 tonnellate all’anno, seguita subito dopo dall’India e dagli altri paesi asiatici (intorno alle 500 tonnellate). Acquisiti ingenti si sono registrati ogni anno anche in America latina e in medio oriente (300-400 tonnellate). In Europa invece, gli acquisti si sono dimezzati negli ultimi tre anni. A fare le spese di questo aumento di riserve sono principalmente i titoli di stato americani. Negli ultimi dieci anni la quota dell’oro nelle riserve delle banche centrali è salita dal 10 per cento a quasi il 25 per cento mentre quella del debito in dollari del Tesoro Usa è scesa dal 35 al 25 per cento. C’è una manifesta volontà dei paesi emergenti di non dipendere troppo dai titoli in dollari, che diventano sempre più rischiosi, anche per effetto dell’aumento del debito pubblico statunitense, dal 104 per cento del pil nel 2015 al 125 nel 2025. Il maggior rischio si è tradotto in un incremento dei tassi d’interesse sui titoli di stato americani dal 2 al 4 per cento. La decisione di ridurre gli acquisti di titoli in dollari risale a qualche anno fa ma ha registrato una accelerazione negli ultimi mesi, anche in seguito alle scelte della nuova amministrazione americana che mira a rafforzare il predominio del dollaro nel sistema monetario internazionale, il cosiddetto privilegio esorbitante. Il Genius act, ad esempio, mira a favorire lo sviluppo di monete private come gli stablecoin, emessi contro riserve denominate principalmente in titoli di debito statunitense. Se gli stablecoin in dollari domineranno il sistema di pagamenti mondiale, garantiranno la domanda di titoli americani per i prossimi anni, che potranno essere finanziari a basso costo. La scelta dell’oro come alternativa al dollaro è anche il frutto della scarsa disponibilità e liquidità di titoli denominati in altre valute globali, in particolare l’euro. Fin quando il mercato finanziario europeo rimarrà frammentato e soggetto a regolamentazioni troppo vaghe e interpretate in modo diverso dalle autorità nazionali, l’euro non riuscirà a imporsi come alternativa credibile. Il corso dell’oro appare fortemente correlato anche con l’incertezza percepita da parte delle imprese. L’indice costruito sulla base di inchieste presso gli imprenditori segnala che l’incertezza è fortemente aumentata nel corso degli ultimi due anni, probabilmente in seguito alle tensioni politiche internazionali, al frazionamento delle catene del valore, alla guerra commerciale, alla scarsità delle materie prime, ecc. In prospettiva, il potenziale di apprezzamento dell’oro, oltre le quotazioni elevate già raggiunte, dipende dai fattori che ne hanno spiegato la forza fino ad ora. Per quel che riguarda il desiderio dei paesi emergenti di proseguire la diversificazione degli investimenti fuori dal dollaro, difficilmente potrebbe arrestarsi nei prossimi anni. Nelle recenti previsioni del Fondo monetario internazionale i paesi emergenti dell’Asia e del medio oriente dovrebbero continuare a registrare avanzi delle loro partite correnti, il che dovrebbe determinare un accumulo di riserve a un ritmo di oltre 400 miliardi all’anno. Una buona quota di queste riserve potrebbe finire in metalli preziosi, soprattutto se la dinamica del debito pubblico americano continuasse a deteriorarsi. L’inflazione dovrebbe rimanere contenuta, ma non si può escludere che i dazi si trasmettano nel tempo in prezzi al consumo più sostenuti, soprattutto se la Riserva federale continua ad allentare le condizioni monetarie americane. Infine, le tensioni geopolitiche globali non sembrano potersi sedare rapidamente, accentuando il clima di incertezza per le imprese e i risparmiatori. Tutti gli indicatori sembrano puntare in una direzione. L’unica incognita è la velocità.
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