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Perché l’Inter non può e non deve avere paura del Paris Saint-Germain
Ieri 31-05-25, 05:04
C’era una volta il Milan che si accendeva quando “sentiva la musichetta”, per utilizzare un concetto caro ad Adriano Galliani. Ed è in quella musichetta che l’Inter di Simone Inzaghi si è rifugiata per tutto l’anno, lasciando che lo scudetto scivolasse via come una foglia caduta in un ruscello di montagna, spostando completamente l’attenzione e perdendo un campionato che tutti ritenevano fosse alla sua portata. “Quando vediamo il pallone della Champions ci svegliamo”, ha detto qualche giorno fa Davide Frattesi, dando involontariamente ancora più solidità alla percezione di una squadra dai due volti, feroce in Europa, più svagata in Italia, forse appagata dallo scudetto della seconda stella arrivato ormai dodici mesi fa. Ha scalato montagne altissime, l’Inter. Ha già sbancato Monaco, teatro della finale, e ha difeso con le unghie quel vantaggio nella gara di ritorno; ha fermato il maremoto Yamal opponendosi con tutto ciò che aveva a disposizione, dai pali di San Siro alle mani di Yann Sommer. Si è trovata spalle al muro e ne è uscita viva, trovando gol imprevisti e imprevedibili, lasciando il Barcellona a bocca aperta. Ha alternato brani di calcio esaltante a momenti di difesa strenua, da guerra di trincea. E se due anni fa l’ultimo atto contro il Manchester City sembrava dal pronostico chiuso, a prescindere da quello che poi ha detto il campo, stavolta l’impressione è che la distanza non sia così ampia. Non è più il Paris Saint-Germain delle stelle globali e forse proprio per questo motivo ha raggiunto la finale: Luis Enrique già lo scorso anno aveva trovato la quadratura del cerchio, anche nella versione con Mbappé, e soltanto il fato lo aveva privato della finale contro il Real Madrid, uscendo in una doppia semifinale con il Dortmund dominata per larghi tratti. Ma servirà l’Inter migliore, concentrata, feroce, tirata a lucido. È curioso e paradossale, ma la sfida tra Simone Inzaghi e Luis Enrique si giocherà attorno a quelli che possono essere allo stesso tempo i punti di forza e di debolezza delle rispettive squadre. Basti pensare al duello Hakimi-Dimarco, straripanti quando c’è da attaccare e decisamente meno sul pezzo quando c’è da difendere: l’Inter proverà a manipolare la partita nei momenti in cui il Psg alzerà il pressing (e non saranno pochi), cercando con il giro-palla e con i giochi a tre tra Bastoni, Mkhitaryan e Dimarco di andare a colpire alle spalle del grande ex di serata, magari con la sponda di Thuram che ama aprirsi sulla sinistra. Ma i parigini vorranno fare lo stesso: nel corso della stagione, Dimarco è parso l’anello debole del sistema difensivo di Inzaghi, e allora attenzione alle fasi in cui il Psg andrà a sovraccaricare quella corsia, sfruttando gli scambi continui tra i tre attaccanti per lasciare spazio alle folate di Hakimi. Rischia invece di essere più bloccato il duello sull’altra corsia, perché la sfida tra Dumfries e Nuno Mendes si prospetta all’insegna dell’agonismo folle, rischiando di neutralizzare l’olandese, una delle armi improprie di questa cavalcata europea dell’Inter. Ma attenzione, perché il numero 2 interista può mettere la testa con grande efficacia sui piazzati, l’aspetto del gioco in cui il Psg sembra più fragile: l’Arsenal ha cercato di ribaltare la semifinale addirittura utilizzando le rimesse laterali sparate direttamente in area di rigore, l’Inter ha costruito parte dei suoi trionfi sfruttando al meglio corner e punizioni, come sanno bene Bayern e Barcellona. Servirà, all’Inter, l’arte antica della pazienza: ci saranno momenti in cui il Psg renderà la finale un incubo, vorrà controllare il gioco grazie al formidabile terzetto composto da Joao Neves, Vitinha e Fabian Ruiz, e i nerazzurri non dovranno distrarsi. Acerbi non avrà un riferimento al quale aggrapparsi, perché il Psg non ha il classico totem: nessun Haaland, nessun Kane, nessuno a cui imporre la sua personalissima cura Ludovico. Dovranno essere tre corpi e un’anima, PavardAcerbiBastoni, tutto attaccato, nell’esigenza disperata di non finire frastornati dai movimenti di Doué, Dembelé e Kvaratskhelia, abituati a ingannare le difese avversarie apparendo e scomparendo alla bisogna. Diceva Valdano che “il calcio è progredito come il traffico: prima circolare era facile, adesso è diventato un inferno”. Quando è in fiducia, il Psg riesce a sgattaiolare in mezzo a quel traffico come i monopattini nelle metropoli. L’Inter avrà la necessità di fiaccare questa fiducia, dovrà provare a esporre i due centrali come ha fatto nel meraviglioso gol di Lautaro in casa del Bayern Monaco. E poi, per arrivare in porta, dovrà superare il mostro finale dei videogiochi, quel Gigio Donnarumma che a forza di critiche, spesso ingenerose, si è fatto via via sempre più grande, il volto segnato dalle battaglie, la capacità soprannaturale di portare il suo corpo enorme a terra in una frazione di secondo. Ha giocato una Champions League da Pallone d’Oro, sfornando parate che basterebbero a riempire raccolte di highlights di un’intera carriera di un portiere normale. L’Arsenal, che dopo aver superato l’ostacolo Real Madrid come se nulla fosse, credeva di poter disporre agevolmente anche dei parigini: le parate di Donnarumma hanno fatto montare nei Gunners una frustrazione palpabile. E allora si arriva all’intangibile, a quello che non entra nelle statistiche eppure, quasi sempre, finisce per decidere una finale, specialmente di questo livello. Servirà un’Inter sveglia, accesa, costantemente sul pezzo, capace di non perdere la calma davanti a un episodio negativo che nel calcio può essere sempre dietro l’angolo. Non sarà facile, perché in campionato i nerazzurri hanno preso contromano praticamente tutti i bivi che si sono trovati davanti in tempi recenti, come dimostra quell’Inter-Lazio in cui Inzaghi e i suoi ragazzi hanno buttato via uno scudetto che improvvisamente era tornato a essere alla portata dopo settimane in cui il Napoli era stato pienamente padrone del proprio destino. Servirà una squadra matura, in grado di dimostrare di aver processato quel dolore, di averlo interiorizzato e trasformato. Dovrà renderlo benzina per alimentare il motore della vittoria, perché il filo tra una stagione senza trofei e una da consegnare ai posteri è così sottile da potersi sfaldare in un solo, fatale, attimo di distrazione.
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