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Economia e Finanza
Quelle fake news che oscurano i veri problemi della manovra
Oggi 15-11-25, 06:13
Questa settimana è scoppiato il putiferio sul documento di bilancio predisposto dal governo per il 2026. Il documento era disponibile da qualche giorno sul sito del ministero ma le principali testate italiane ne hanno riferito solo dopo l’audizione di alcuni organismi indipendenti, in particolare quello della Banca d’Italia, con titoli del tipo “La manovra premia i ricchi”. Solo a quel punto si è scatenato il dibattito politico. Le opposizioni hanno cercato di fare leva sull’autorevolezza dell’autorità monetaria per accusare il governo di favorire i ricchi: “Non lo diciamo noi, lo dice la Banca d’Italia!”. Il governo, da parte sua, si è difeso sostenendo che “chi guadagna 45 mila euro all’anno non è ricco”. Alcuni commentatori non hanno perso l’occasione per scrivere contro la Banca d’Italia (titolando “Stipendi d’oro e funzionari rossi: ecco Bankitalia”), accusandola addirittura “di neo-comunismo in versione neo-Mamdani”. Com’è possibile che la Banca d’Italia, una istituzione la cui indipendenza è parte fondante della sua storia, sia all’origine di uno scontro politico così acceso, finendoci nel bel mezzo? Domanda legittima. Eppure non se la sono posta in molti. Segno dei tempi: perché la notizia diventi verità basta un flash di agenzia, un tweet o un titolo a lettere capitali. Senza che nessuno senta il bisogno di verificarla. Nemmeno quando, come in questo caso, c’è un testo scritto. Eppure, l’audizione di Fabrizio Balassone, dirigente del Servizio studi della Banca d’Italia, presso le commissioni riunite della Camera e del Senato della Repubblica, era consultabile da subito sul sito della Banca d’Italia. Da quel testo, di una ventina di pagine, si evince che: In primo luogo, non viene mai usata la parola “ricchi” o un sinonimo. Vi è semplicemente una descrizione della riduzione dell’Irpef, di cui “beneficerebbero i contribuenti con reddito complessivo superiore a 28 mila euro, in misura crescente fino a un massimo di 440 euro annui per redditi pari o superiori a 50 mila euro. Per i redditi superiori a 200 mila euro il vantaggio si potrebbe ridurre, fino ad annullarsi”. Non c’è alcun giudizio di valore, né una definizione di chi sia da considerare ricco o povero. Peraltro, viene precisato subito dopo che “l’intervento fa seguito ad altre misure di riduzione di imposte e contributi, prevalentemente a favore dei redditi più bassi, introdotte negli scorsi anni”. Si evince inoltre che, nel complesso, le misure previste non comportano variazioni significative nella distribuzione del reddito tra le famiglie. Il motivo è che se la riduzione dell’Irpef per il secondo scaglione di reddito favorisce i nuclei dei due quinti più alti della distribuzione, gli effetti dei principali interventi in materia di assistenza sociale si concentrano invece sui primi due quinti delle famiglie. In altre parole, le misure di modesta entità a favore delle fasce più benestanti vengono bilanciate da quelle a favore delle fasce meno abbienti. In sintesi, dalla lettura della relazione della Banca d’Italia non si evince alcun rilievo su eventuali vantaggi dati ad alcune categorie piuttosto che ad altre. Di conseguenza, il dibattito si è svolto intorno a nulla. Ciò che preoccupa, piuttosto, è che non c’è invece alcun dibattito, sulla base di elementi oggettivi e di una analisi approfondita, sul documento di politica economica più importante dell’anno, che potrebbe essere utile ad esempio durante il passaggio parlamentare. Eppure le audizioni contenevano spunti interessanti. Alcuni esempi. Innanzitutto, le principali coperture delle misure espansive, come i tagli dell’Irpef e gli aumenti di spesa, si basano su misure una tantum, come la tassazione delle banche e le assicurazioni e la riprogrammazione del Pnrr. L’incertezza sul futuro finanziamento tende a ridurre l’impatto delle misure. Peraltro, l’effetto complessivo della manovra, pari a 18 miliardi di misure espansive e altrettanti di misure restrittive, è sostanzialmente nullo sulla crescita economica del paese. In altre parole, la qualità della spesa pubblica e delle entrate non migliora e rischia di creare incentivi perversi, come nel caso della rottamazione delle cartelle. E’ da valutare anche la misura che limita l’adeguamento dei criteri di accesso alla pensione, per tener conto dell’allungamento della speranza di vita. Il risultato è infatti quello di aumentare ulteriormente la spesa pensionistica nel prossimo triennio, che è già la più alta d’Europa. Infine, continua ad aumentare, anno dopo anno, il peso delle entrate pubbliche sul prodotto interno lordo nazionale, così come il peso della spesa pubblica, che ha superato il 50 per cento del pil. Uno dei livelli più alti d’Europa. Tutti questi aspetti meriterebbero un dibattito serio, in particolare sul ruolo della finanza pubblica nel sostenere la crescita del paese. Crescita che, tuttavia, è prevista rimanere nei prossimi anni al di sotto della media europea. Un dibattito che non si riesce a fare – o non si vuole fare – grazie a una notizia falsa.
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