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Sport
Tour de France. A Superdévoluy Carapaz è tornato un labirinto di pieghe della pelle
17-07-2024, 17:59
A Richard Carapaz negli ultimi anni non è andato bene quasi nulla. Problemi fisici, virus, cadute, calcoli sbagliati, fastidi, cose così. Il suo sorriso si era progressivamente spento, i suoi occhi felici si erano adombrati. Si erano bagnati di lacrime un anno fa a Bilbao dopo la caduta alla prima tappa che lo aveva azzoppato rispedendolo subito a casa. Sembrava non avere fine questo periodo storto. Ogni volta che risentiva la gamba buona, quelli dei tempi vincenti, accadeva qualcosa che lo rispediva indietro. Il viso di Richard Carapaz in questi anni si è segnato di rughe sottili e svuotato di pieghe della pelle. Si era marmorizzato in un’espressione insoddisfatta svuotata di felicità. A Superdévoluy, pochi metri dopo il traguardo della diciassettesima tappa del Tour de France, il viso di Richard Carapaz è ritornato un labirinto di pieghe della pelle, quelle che stavano attorno al suo sorriso enorme. Ha vinto Richard Carapaz. Ha vinto alla sua maniera: di forza e coraggio, di convinzione e avventura. Recuperando digran carriera la distanza che Simon Yates aveva messo tra lui e tutti gli altri. Ha vinto e ha sorriso dopo essersi commosso, perché nei sorrisi si nascondono sempre le lacrime, in ogni cuore avventuriero, la gioia e lo spavento della solitudine. A Superdévoluy si è sentito di nuovo un corridore felice. E sì che a questo Tour de France era riuscito a vestire la maglia gialla un giorno al termine di una tappa di pianura. Curioso per uno che è stato in questi anni uno dei migliori scalatori in circolazione. Non era il solito Carapaz però quel giorno sul palco delle premiazioni di Torino. C’era ancora una nebbia che non si diradava nei suoi occhi. Avrebbe voluto indossarla per qualche giorno, è andato in crisi il giorno dopo sul Col du Galibier. C’ha provato spesso nei giorni seguenti a centrare la fuga giusta, qualche volta l’ha acchiappata, gli è sempre andata male però. Fino a oggi, il giorno nel quale l’ostinazione ha prevalso su ogni altra cosa. E di ostinazione ne serviva oggi. Là nell’arco prealpino che unisce in quota Gap e Grenoble, il Tour de France si doveva concedere una giornata di quelle che capitano nei giri di tre settimane, fatta di uomini coraggiosi alla ricerca della giornata di gioia e poi minuti e minuti ad attendere l’arrivo del gruppo dei forti coi pensieri rivolti al futuro, alle cime e ai passi che si intravedono all’orizzonte. Non è andata così. La diciassettesima tappa del Tour de France, la Saint-Paul-Trois-Châteaux-Superdévoluy,177,8 chilometri, è stata un continuo e incessante inseguimento. C’era chi inseguiva l’avventura di un giorno, chi inseguiva chi inseguiva l’avventura di un giorno perché voleva essere anche lui partecipe. C’era chi inseguiva la gloria, chi la redenzione, chi l’occasione di una carriera, chi se stesso e si sa che è meglio farlo tra pochi che tra molti. Chi si ritrovava lì a inseguire per i capitani e chi perché non ci capiva più niente e non poteva far altro che fare quelli che facevano tutti. E tutto questo a cinquanta e passa all’ora su strade che puntavano, anche se in modo discreto, all’insù. In tutto questo inseguimento, il gruppo si è trovato a inseguire se stesso che si era infuturato per ragioni di gambe. Per centoventi chilometri il gruppo è stato animato da scosse e scossoni continui a velocità altissime, alla maniera di certi direttissimi che se ne fregano delle stazioni intermedie e vanno a tutta velocità sino a quella finale. Poi è arrivata la quiete. C’erano i fuggitivi più fuggitivi degli altri: Tiesj Benoot, Magnus Cort, Romain Gregoire e Bob Jungels; c’erano i fuggitivi inseguitori (una quarantina di corridori); c’era il gruppo a cui fregava soltanto di pedalare tranquillamente gli ultimi chilometri di tappa. O così almeno sembrava. Perché poi Tadej Pogacar ha pensato bene che non era il caso di pedalare tranquillamente. Non ha resistito alla sirena del Col du Noyer che gli sussurrava Scatta. È scattato. E questa volta a far più fatica dei tre è stato Jonas Vingegaard. Ha provato a restare in scia della maglia gialla, poi ha sbuffato e scosso la testa. Ha mollato pure la ruota di Remco Evenepoel, troppo forte anche il suo ritmo. È rientrato su Pogacar e sul belga in discesa, si è salvato grazie a Wout van Aert arrivato al momento giusto in suo soccorso dopo non aver retto il passo né di Richard Carapaz, né di Simon Yates, né di tanti altri della fuga. Verso Superdévoluy ad attaccare è stato Remco Evenepoel. E Jonas Vingegaard lo ha lasciato andare. Non sarebbe riuscito a rientrare, le gambe erano quelle che erano, assai meno buone di quelle che aveva dimostrato di avere negli ultimi due anni. Tutto abbastanza prevedibile. Sarebbe stato strano il contrario: tre mesi lontano dalle corse per una caduta si pagano sempre sulle tre settimane.
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