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Sport
Una passione infinita per il basket. Rodolfo Rombaldoni è tornato sul parquet
10-12-2024, 12:33
Rodolfo Rombaldoni is back. Di nuovo. Giocherà con la Vadese, campionato regionale delle Marche, 6ª divisione, la periferia dello sport. "Mi tengo in forma, mi diverto e mi sento bene. Questo è tutto". A 47 anni lo sport può essere un hobby. Ma per chi ha giocato e vinto quasi tutto diventa un universo dentro cui adagiarsi. Si sente giovane, l’ex scudettato della Fortitudo, argento olimpico ai Giochi di Atene, l’uomo che fermò un giovane (allora sì) LeBron durante un’amichevole Italia-Usa. "Dentro di me è cambiato poco. Le emozioni che provi quando giochi ci sono sempre. E sono sempre le stesse, a nove anni come oggi. Purtroppo cambia il corpo. E bisogna fare i conti con la realtà". È sempre più lunga la schiera dei longevi, atleti che ritardano il momento della fine o che prolungano l’alto godimento nelle categorie inferiori. Non c’è scopo, né gloria. Divertimento puro. Romba è rimasto fermo due anni. Ma il richiamo del parquet è stato più forte della carta d’identità. "Mi dovevo disintossicare. Ma dopo sei mesi avevo già capito di dovermi rinforzare, altrimenti il corpo cede. Il coach della Vadese mi ha detto: ’Perché non vieni?’. Ok. Tutto qui". Cosa le fa più male? "Il tendine d’achille. Ci ho sempre convissuto, ma adesso mi fa tanto male. Ogni giorno ce n’è una. Usura delle cartilagini, articolazioni doloranti. Ho bisogno di riposo, di recupero, avere il tempo di fare poco tutti i giorni". Si è fatto una tabella? "Mentale, ma me la sono fatta". Alla sua età cosa ha capito di lei come atleta? "Che sono stato molto fortunato. Ho fatto una cosa che mi piaceva e ho raggiunto tante soddisfazioni fino ai massimi livelli. Sono molto grato". I ricordi servono o fanno male? "Mi piace più ricordare in generale le sensazioni del viaggio che ho fatto per arrivare fino in fondo. La costanza, il divertimento, la serietà. Le delusioni, le esperienze belle. Alla fine quello che ti resta è questo". Direbbe qualcosa al Rodolfo ventenne? "Di maturare prima. Io l’ho fatto un po’ tardi. Ci sono giocatori pronti a quindici anni, altri a venticinque. Ognuno ha il proprio percorso. Non puoi cambiare le cose, ma avere una maturità ti aiuta. Ho sempre avuto fiducia nei miei mezzi, ma quando cresci cestisticamente in un paesino non è facile. Devi rincorrere gli altri. Il primo anno da professionista è stato un incubo. Intensità diversa, erano tutti più forti. L’adattamento è stato tosto". Ai ragazzi che giocano con lei cosa dice? "Sono di poche parole, lascio fare tutto al coach. Se devo dire qualcosa non mi tiro indietro. Ma non puoi consigliare la luna. Devi capire il contesto in cui sei, chi hai davanti, se uno fa un errore lo devi accettare. C’è grande rispetto. Ci sono ragazzi che mi confessano i loro sogni. Altri non sanno nemmeno che ho giocato". Non lo scoprono? Wikipedia aiuta. "Un ragazzo lo ha scoperto. Viene da me e mi fa: 'Ho visto che giocavi'. La cosa è finita lì. La volta dopo viene di nuovo: 'Caspita, ho visto che hai giocato anche in Nazionale. È difficile?'. Lui faceva l’Eccellenza e la Silver, ma faticava. Com’è giocare contro i più forti, è difficile? 'Sì', mi dice lui. Ecco com’è giocare in Nazionale". Il basket com’è cambiato rispetto a quando giocava lei? "È tutto più veloce, c’è più ritmo. L’Eurolega mi piace, in Nba ci sono giocatori fortissimi. Ma in Nba secondo me non si divertono più di tanto. ci sono troppi spazi, impossibile difendere, se uno è un fenomeno in attacco non puoi limitarlo in nessun modo. In Europa il gioco è più interessante. In generale comunque mi piace". Cosa non le piace? "Ormai ti rivolgi a un giocatore in un certo modo e il giocatore si offende. Ecco, questo non mi piace. Quelli della mia generazione, e quelli prima, prendevano le cose che gli dicevano: incassavi e stavi zitto. Magari ti lamentavi un po’, ma dovevi accettare quello che ti si diceva. Era per il bene tuo, per la squadra. Marcelletti ti insultava. Ho avuto tanti coach tosti. Ma che facevi? Andavi avanti". A lei che è successo? "Mani addosso, sberle, muso contro muso. Intendiamoci, era sbagliatissimo. Ma in quel contesto lì lo si accettava. C’era il terrore, però resistevi. Adesso è finita. Non c’è più il rispetto dei ruoli. I genitori si lamentano degli insegnanti. E tutto dev'essere pulito, asettico, altrimenti non fanno nulla, si offendono. C’è sempre una scusa. Meglio adesso di una volta, ma i giocatori sono più fragili mentalmente". Non esistono più in sergenti di ferro? "No, fanno fatica. Quel metodo non paga più. Una volta c’era tanto di quello e poca sostanza. Devi essere un allenatore con grandi conoscenze, non può comunque bastare l’aspetto da duro". La sua è una storia di tenacia? "È solo una storia semplice. Sono cresciuto a Urbania, mi sono subito innamorato della palla, giocavo tutti i giorni. Venivo da una famiglia umile e quindi la mia realtà mi ha dato le motivazioni giuste. Mio padre era un appuntato dei carabinieri, mia mamma una casalinga. Siamo cinque figli. Il basket mi ha dato tutto". Fa ancora la differenza? "A mio modo. Non avendo resistenza. Perché mi stanco subito. Non puoi fare tutta la partita, la partita la devono fare gli altri. Ma nei momenti giusti capisci che forzare la situazione può servire". Chi sono i suoi compagni? "Alcuni sono i figli dei miei coetanei. L’ultima volta li avevo visti a quattro anni e adesso li ritrovo uomini. La cosa bella è che la gente è incuriosita da questo ritorno. E mi fa piace". Ci sono i bulli di provincia, li ha incontrati? "Sì, in tutti gli ambienti li trovi. Magari ti dicono: 'Sei finito, vecchio di merda, ma dove vai?'. Alla fine il basket sistema sempre tutto. Ma la grande differenza tra questi livelli e gli altri è che qui molti giocatori parlano, si lamentano di tutto, degli arbitri, dell’allenatore. Non esiste. L’alto livello è schematico: vado, faccio il mio, l’allenatore parla e io ascolto. Qui sotto è un bulirone, un gran casino. Ma è bello, è il basket, l’essenza di tutto".
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