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Blackout, la profezia del re etiope: "Il covid della tecnologia può spegnere il mondo"
Oggi 29-04-25, 08:53
Non è un vecchio articolo ripreso quello che state leggendo, vi sto per raccontare quanto accaduto qualche tempo fa. Qui in Etiopia però siamo nel 2017 sono le 5, siamo a qualche chilometro da Konso City, una città nel sud dove il Governo centrale condivide il suo potere con la tribù locale, quella dei Konso appunto. Il Tempo, quì è un'altra storia. I motivi per i quali in Etiopia siamo 8 anni indietro sono molteplici, tradizione, religione e comodità rurali. La tribù conta circa 300 mila membri divisi in 9 clan ognuno di essi ha un referente e la tribù ha un capo supremo, il Re Kaala Gezahegne. Lo scettro si eredita di padre in figlio, così da 20 generazioni. Il Re vive con la sua famiglia isolato dal resto della popolazione, in un enorme terreno coltivato che gli consente di avere, e di vendere, ogni tipo di frutto, cereale e così via. Entriamo nel suo palazzo reale, un giardinetto con capanne in paglia e legno, ci accomodiamo e dopo qualche istante arriva lui, il Re. Con abiti sgargianti e più moderni di quello che ci si aspetta, un sorriso smagliante ed un inglese impeccabile. Prima di fargli qualche domanda, si presenta, laureato in ingegneria civile, padre, marito e da giovane ha lasciato il villaggio rurale per studiare e poi fare carriera ad Addis Abeba. Circa venti anni fa la fatidica chiamata, il padre è morto, e lui non può esimersi. Lascia la confortevole e moderna abitazione nella capitale, lascia il lavoro e torna al villaggio alla vita rurale. È il 19esimo Re Konso, il suo ruolo principale è di mantenere la pace, mediare tra i clan e rappresentare la tribù nelle istituzioni nazionali. «Scegliere la vita indigena è una scelta positiva. A volte le persone scelgono la modernità, la tecnologia e la città solo perché è più semplice. Ma qui è meglio - ci spiega -. È come dare una base alla propria vita, la vita locale, indigena, tradizionale. Da ingegnere, so che serve una base per la casa. Quindi, la vita indigena sono le fondamenta; ne l'uomo, ne una casa possono essere sospesi in aria. Una casa costruita in aria non può durare a lungo; il vento può spostarla, può essere facilmente demolita, ma se ha una base e delle fondamenta, può resistere. È meglio conoscere la vita indigena anche se poi si adotta la vita moderna senza influenzare i valori di quella indigena. Potrebbe sembrare non necessario, ma è meglio conservarla e utilizzarla quando è importante. Ad esempio, il computer, quando elimini qualcosa, ti chiede: “Sei sicuro? ”Quando vai nel cestino e provi a eliminare, chiede: “Sei sicuro di voler eliminare dal cestino?” Potresti non recuperarlo. Ecco perché chiede: “Sei sicuro?” Quindi è meglio mettere da parte la vita tradizionale e utilizzarla quando necessario. Si tornerà dunque alla vita indigena, chiediamo. «La modernità non può essere sostenibile al 100% a lungo termine. Mi ricordo che un mio amico una volta disse che, in futuro, l'umanità avrà bisogno solo di un dito. Gli chiesi cosa intendesse, e mi spiegò che sarebbe stato sufficiente un dito per controllare tutto: cliccare, toccare, fare tutto attraverso un sistema digitale. Tuttavia, questo sistema è fragile, basterebbe un “Covid della tecnologia” per spegnere tutto». Parole che oggi assumono un significato più tangibile.
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