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Bordate del “padre” del Jobs Act: “Gli ipocriti del Pd ora dicano perché hanno cambiato idea”
Ieri 06-05-25, 13:15
«Non cambiare significa non pensare. Il problema è che in questa vicenda nessuno spiega perché ha cambiato idea. Vedo solo tanto trasformismo o meglio accodarsi per spirito di convenienza. Quando abbiamo fatto quella legge pochi ebbero il coraggio di dire “no”. Mi sorprende, dunque, che a brindare per un eventuale suo superamento siano le stesse persone che allora parlavano di svolta». A dirlo Tommaso Nannicini, ex parlamentare e padre del Jobs Act. Qualcuno ha definito il prossimo referendum come un voto sulla legge su cui, lei più di tutti, ha lavorato... «A mio parere, è una fake news. Solo uno dei quattro quesiti riguarda un pezzo del Jobs Act, ovvero quella riguardante il contratto a tutele crescenti, tra l'altro già cambiato da una sentenza della Corte. Se vince il “sì”, poi, l'indennizzo massimo in caso di licenziamento ingiustificato scenderà da 36 a 24 mesi. Un quesito, pertanto, più ideologico che di difesa dei diritti». Non era meglio, quindi, lasciare liberi gli iscritti Pd su un tema così trasversale e tecnico? «Avrebbe avuto un senso. Sono anni che, nel centrosinistra, sulle scelte che riguardano il lavoro, non c'è tanta convergenza come adesso. Basti pensare al salario minimo, al reddito di formazione fino ai congedi di sostegno alla genitorialità. Questa voglia di dividersi sul passato, solo perché lo dice la Cgil, fra l'altro affossando un quesito importante come quello sulla cittadinanza, che avrebbe messo in seria difficoltà la maggioranza, è un autogol. Sbagliato accordarsi, in modo supino, a un pezzo di sindacato». La Cisl, ad esempio, non si ritrova con quanto predicato da Maurizio Landini... «Per bontà sua, la Cisl è impegnata a portare avanti una battaglia su un disegno di legge importante come quello sulla partecipazione nei luoghi di lavoro. È un bell'esempio di un'organizzazione che difende la sua autonomia, lontano da un certo populismo sindacale che serpeggia altrove. Non si sopperisce alla crisi di rappresentanza sparandola grossa in qualche piazza». La sorprende che tutte quelle persone che un po' di anni fa la esortavano a fare presto con quella legge di cui è diventato il padre, adesso fanno campagna elettorale per eliminarla... «La politica, oggi, è volatile, ma in questo caso vedo molta ipocrisia. Sul Jobs Act, al massimo qualcuno si dette malato per non votarlo, ma non ci furono grandi distinguo né in Consiglio dei ministri, né in Parlamento». Questa battaglia è condivisa dall'elettorato dem? «Così si confondono solo le persone. Nessuno entra nei contenuti. Si sta combattendo. una battaglia sul niente. Non stiamo parlando di politica. La Cgil prova un'operazione di egemonia culturale o meglio tenta di intestarsi la linea del centrosinistra. Ma questo non serve né al centrosinistra, né al sindacato, che dovrebbe occuparsi d'altro. In Italia il problema non sono i licenziamenti alti, ma gli stipendi bassi». Farsi dettare la linea da un sindacato non è il massimo per quei leader che vogliono guidare l'opposizione? «Mi sembra che a molti piace la divisione dei ruoli, in cui i politici si occupano dei post sui social e delle liste elettorali e ad altri, invece, viene delegata la proposta. Così si svilisce l'autonomia della politica. Fra l'altro c'è un altro aspetto su cui non si discute». Quale? «Con il Jobs Act si è voluto introdurre il reintegro, nel caso di licenziamento illegittimo, per chi lavora in partiti e sindacati. Se vince il “sì” non ci sarà più. Anche questo è un effetto collaterale piuttosto curioso».
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