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I Savoia fanno causa allo Stato: "Il tesoro del Regno è nostro": in ballo 300 milioni
Oggi 05-10-25, 10:13
Immaginatevi un tesoro di immenso valore composto da migliaia e migliaia di brillanti, altrettante perle, diamanti, diademi, collier e tanto altro ancora. No, non stiamo parlando di una fortuna uscita da una storia di fantasia ma del tesoro della Corona d'Italia. Una ricchezza custodita dall'ormai lontano 1946 nel caveau della Banca d'Italia. Ebbene, di chi sono quei magnifici e preziosissimi gioielli? Questa è una vicenda intricata, finita nelle aule di un tribunale. Maria Gabriella, Maria Pia, Maria Beatrice ed Emanuele Filiberto, figlie e nipote dell'ultimo re d'Italia, reclamano quel tesoro, stimato in circa 300 milioni di euro. Costoro hanno deciso di impugnare la sentenza con la quale nel maggio scorso il tribunale di Roma aveva stabilito quei preziosi sono di proprietà dello Stato. Avevano perso una battaglia ma non la guerra (legale). Ora sono pronti a tutto. Come racconta il Corriere della Sera, il 5 giugno del 1946 un signore bussò alla porta di Palazzo Kock. Si trattava dell'avvocato Falcone Lucifero, reggente il Ministero della Real Casa. Il legale era andato lì per conto di Sua Maestà il Re Umberto II al fine di portare il tesoro che come si legge nel contratto di deposito: «sono le gioie di dotazione della Corona del Regno d'Italia per essere tenuti a disposizione di chi di diritto”. Figlie e nipote dell'ultimo Re d'Italia si sono fatti forza con tale dichiarazione. Ma c'è chi si oppone a tale ragionamento. “Nessuna restituzione, i gioielli non sono mai appartenuti a Re Umberto II, sono dello Stato fin dal tempo dello Statuto Albertino e tali sono rimasti nel passaggio alla Costituzione Repubblicana — ha spiegato il giudice Mario Tanferna motivando la sentenza — Ad abundantiam per la Costituzione ‘i beni degli ex re di casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi sono avocati dallo Stato'”. I Savoia, però, non ci stanno. Tanto che hanno subito replicato con l'avvocato Sergio Orlandi: “Per ‘gioie di dotazione della Corona del Regno d'Italia' si intendeva che erano stati acquisiti dai membri di casa Savoia. Non sono mai stati confiscati, semplicemente depositati. Beni personali per cui una volta cessata l'esistenza della Corona del Regno dovevano tornare agli eredi del Re”. Questi ultimi hanno chiesto ai giudici d'appello “di non applicare la XIII disposizione della Costituzione perché in contrasto con la norma europea” ed ora vorrebbero la riapertura del cofanetto per accertarsi del contenuto. In questa intricata vicenda fanno anche un nome di prestigio per avvalorare la propria posizione: quello di Luigi Einaudi. Allora governatore della Banca d'Italia, colui che sarebbe divenuto Presidente della Repubblica aveva “discusso” della questione nei suoi diari: “Potrebbe ritenersi che le gioie spettano non al demanio dello Stato, ma alla famiglia Reale”. Ma per Tanferna il prestigio di Einaudi non è garanzia di verità: “Non può essere attribuito un valore decisivo ai diari”. I Savoia non si sono persi d'animo e hanno rilanciato: “Einaudi testimonia che la formula ‘a chi di diritto' salva le eventuali ragioni del Re”. Sulla vicenda è intervenuta anche Olina Capolino, capo degli avvocati della Banca d'Italia fino al 2023: “I diari danno conto di convinzioni personali dell'autore fondate su sentimenti di stima personale dei confronti del ‘Re di maggio', nonché su non celate simpatie monarchiche”. Al momento vi è una unica certezza: la battaglia legale andrà avanti ancora per molto tempo. Difficile dire chi la spunterà.
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