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"La voce delle ferite": il progetto della Fondazione Artemisia ETS che restituisce un futuro alle donne segnate dalla violenza
Oggi 20-11-25, 14:09
Ci sono segni che non spariscono, anche quando non rimangono più sul volto. Sono le tracce della violenza, quelle che continuano ad agire molto dopo la fine dell'aggressione. Negli ultimi giorni, a Roma, queste storie hanno trovato un luogo in cui essere ascoltate senza filtri, la Fondazione Artemisia ETS ha presentato un progetto che non si limita a denunciare, ma costruisce percorsi reali di recupero per le donne che convivono con cicatrici fisiche e psicologiche. Il programma si chiama “La voce delle ferite” ed è pensato per aiutare chi porta ancora addosso i segni della violenza. Il percorso prevede trattamenti gratuiti di chirurgia ricostruttiva, supporto psicologico continuativo e una guida legale per affrontare le procedure giudiziarie. Al centro c'è un'idea semplice ma potente, quella di restituire alle donne la possibilità di riconoscersi senza che la violenza definisca ciò che sono diventate. La rete nasce da un accordo strutturato tra la Fondazione Artemisia e la Direzione Centrale Anticrimine della Polizia di Stato, un'intesa che permette alle vittime di accedere a un sistema di protezione immediato. Il primo contatto avviene attraverso il numero verde nazionale, 800 967 510, attivo 24 ore su 24 da lì tutela, cura medica e accompagnamento psicologico si coordinano, così che nessuna resti sola nel momento più fragile. Durante l'incontro pubblico sono intervenuti magistrati, rappresentanti della Polizia di Stato, professionisti sanitari, psicologi e operatori del settore sociale. Tutti hanno sottolineato la stessa urgenza, la violenza di genere è un fenomeno che richiede un'azione collettiva, non un intervento isolato. Ogni fase - dalla denuncia alla ricostruzione, dalla protezione ai servizi terapeutici - ha bisogno di competenze diverse che lavorino insieme. A scuotere l'ascolto sono state soprattutto le testimonianze. Valentina Pitzalis, sopravvissuta a un tentato femminicidio che le ha cambiato la vita, ha ricordato cosa significhi tornare davanti allo specchio dopo un'aggressione così devastante. La storia di Daniela Bertoneri, madre di Michelle, ha riportato in superficie la dimensione più crudele del fenomeno, quando la violenza non lascia sopravvissuti, restano solo i familiari a custodire la memoria e trasformarla in impegno civile. Sono racconti che nessuna istituzione può ignorare. Accanto al mondo istituzionale, volti del cinema e dello spettacolo hanno scelto di sostenere il progetto, contribuendo ad amplificarne il messaggio. Maria Grazia Cucinotta, Simona Izzo, Laura Freddi e Pino Insegno, non come presenza decorativa, ma come mezzo per portare la discussione fuori dagli ambienti specialistici. Parlare di violenza significa affrontare un tema che attraversa ogni contesto sociale, non solo quelli considerati “a rischio”. La Fondazione quindi, guidata da Mariastella Giorlandino, non lavora solo sulla cura. Attraverso programmi formativi rivolti a scuole, professionisti e giovani operatori, prova a cambiare il terreno culturale da cui la violenza nasce: stereotipi, dipendenze, silenzi e rapporti di potere. Prevenire significa soprattutto insegnare, rendere riconoscibili i segnali, quindi costruire consapevolezza. A chiudere l'incontro sono stati due giovani, uno studente universitario e un rappresentante del terzo settore. Hanno ricordato che il futuro della lotta alla violenza passa anche da loro, da chi oggi si muove in relazioni affettive più esposte, ma non sempre più mature. Il loro messaggio è semplice ma necessario, perché ogni cambiamento inizia da chi decide di non voltarsi dall'altra parte. Il progetto di Artemisia non promette miracoli. Promette un percorso. Promette che nessuna donna debba sentirsi definita dalla violenza subita. Ed è questa la vera rivoluzione.
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Il Tempo
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