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Quel pranzo che cambia il Conclave: Parolin da Papa a “kingmaker”
Oggi 09-05-25, 07:50
Il Grande Accordo va in scena all'ora di pranzo del secondo giorno di Conclave. Dopo il primo tentativo andato a vuoto, la notte che evidentemente non ha portato consiglio e l'ulteriore chance andata in fumo, Pietro Parolin, il favorito numero uno dei vaticanisti e dei bookmakers, ha rotto gli indugi e ha deciso di anticipare i tempi. Il Segretario di Stato, di fronte all'evidente impossibilità di «salire di grado» e accedere al Soglio, ha messo in pratica il piano B. Da grande uomo di mediazione, ha scelto di mettere a disposizione di un altro candidato il suo nutrito pacchetto di voti. Trasformandosi quindi nel kingmaker dell'elezione del successore di Pietro. E piuttosto che far confluire le schede dei cardinali su Zuppi, l'altro italiano davvero in pole position al di là di quanto si è detto nei giorni del pre Conclave, ha optato per la «via americana», rappresentata dalla cordata Prevost-Cupich. Il primo, diventato di lì a poche ore Leone XIV, era considerata da tempo la scelta migliore, la più sensata: l'uomo del dialogo, dell'accoglienza, il grande mediatore. Il più capace di incarnare quell'idea di Chiesa sinodale più volte emersa nelle Congregazioni generali attraverso la voce dei cardinali, specie i più lontani geograficamente dalla Curia romana. L'altro, Blase Cupich, l'arcivescovo di Chicago, progressista e bergogliano di ferro, strenuo sostenitore della sinodalità, con grande appeal tra i cardinali ma con un paio di «ferite» evidenti nel curriculum: aver invitato i fedeli a ricevere la comunione in piedi e aver pronunciato una preghiera alla Convention democratica. E poi il grande vulnus: l'arcivescovo scomunicato Viganò, ex nunzio negli Stati Uniti, nel 2018 lo aveva accusato di essere stato nominato a Chicago su iniziativa del cardinal Theodor McCarrick, poi ridotto allo stato laicale per abusi sessuali. Di qui la strada spianata per Robert Francis Prevost, l'agostiniano con la faccia buona, il sorriso di chi crede davvero nel dialogo, la diocesi in Perù che sarà visitata il prossimo 15 maggio da una delegazione italiana dell'associazione «Ripartiamo», in una straordinaria concomitanza di tempi, che testimonia il suo rapporto privilegiato con il nostro Paese. Ma anche l'uomo della discontinuità (e per questo gradito ai conservatori Sarah e Burke) rispetto a certi meccanismi di gestione non sempre improntati alla trasparenza. Dicono che nelle Congregazioni si sia levata forte la sua voce per chiedere conti e bilanci, in nome di una spending review che dovrebbe caratterizzare la prima parte del suo mandato. Vicino agli ultimi, ma con accenti e modalità diverse dai progressisti più spinti. I migranti, ad esempio, andrebbero aiutati a casa loro. E poi il dossier più rilevante di tutti: l'America e il rapporto con Donald Trump. «Buono», dice chi lo conosce. Durante l'ultima campagna presidenziale Usa, Prevost è stato il fautore dell'incontro fra The Donald e i latinos. E negli Stati Uniti si ricorda la sua attività in favore di organizzazioni umanitarie non proprio ostili al presidente. In questa chiave va interpretata la reazione entusiastica del tycoon e dell'intero popolo americano, che confida in Leone XIV per scrivere definitivamente la parola pace in una Chiesa alla disperata ricerca di unità e in un periodo di forte polarizzazione politica.
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