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Calessi: Bertinotti e Fini, uniti dalla Lega ma separati sulla guerra
23-03-2025, 09:10
Il rosso e il nero a casa della Lega. Sono stati loro, Fausto Bertinotti e Gianfranco Fini, intervistati dal direttore di Libero, Mario Sechi, i protagonisti della prima giornata della scuola di formazione politica della Lega (organizzata da Armando Siri, ieri e oggi a Roma, a Palazzo Rospigliosi). E a dividerli, più che il modello sociale o economico, è la guerra. O meglio la risposta alla guerra. Si parte dalla Costituzione. Per l'ex leader di Rifondazione comunista non è morta, ma «tradita sì». Spiega che «l'innovazione principale dell'attuale Costituzione», rispetto alle carte che l'avevano preceduta, è che ha creato una «connessione sentimentale con il popolo». E lo ha fatto su due punti: «L'equivalenza tra democrazia e uguaglianza» e l'articolo 11, quello secondo cui «l'Italia ripudia la guerra». Ma, visto il contesto in cui viviamo, è ancora valido?, chiede Sechi. Bertinotti non ha dubbi: sì. Anche se, aggiunge, «è stato manomesso negli ultimi 50 anni». Anche dalla sua parte politica. Ricorda la guerra del Golfo, governo Andreotti, quando l'Italia mandò, sotto l'egida dell'Onu, i suoi militari. Già allora, ricorda il fondatore di Rifondazione comunista, un gruppetto dell'allora Pds (Pietro Ingrao, Lucio Magri, Aldo Tortorella) votò contro. Mentre il resto del Pds si astenne. Dunque, dice, non c'è da stupirsi se anche ora la sinistra si divide sulla guerra. «È sempre stato così». Si passa all'Europa. «Abbiamo pensato di fondarla sull'economia, abbiamo fallito. Peggio ancora se pensiamo di fondarla sulla guerra». Il fatto è che «siamo arrivati al capolinea di una lunga storia: alla fine del ‘900 c'è stata la sconfitta del movimento operaio». Da qui è nato «un nuovo capitalismo, la globalizzazione, fondato sulla disuguaglianza». «Tutti erano liberali, comprese le sinistre. Così tanto che pensavano di essere i più idonei a guidare la globalizzazione». Una fase che, continua Bertinotti, «fallisce drammaticamente con l'Europa di Maastricht e del debito. E i sacerdoti di questa nuova dottrina autoritaria sono di centrosinistra». Ed è questa stagione, dice, che «apre la strada alla vittoria di Trump». L'anello finale è quello che stiamo vivendo: «Adesso siamo di fronte a un altro nuovo capitalismo, quello di Musk. Un capitalismo senza freni, neanche più governato dagli Stati ma dalle potenze tecnologiche». MUSK AL TELEFONO... Squilla il cellulare. Sechi: «È Musk al telefono, rispondi tu?». Ma se, alla fine, la pace in Ucraina la fa Trump?, provoca Sechi. Bertinotti: «Chiunque porta la pace, va bene. Fosse anche un demonio». Ma, aggiunge, «non mi fai distrarre da Gaza, dove tu sei complice di un governo criminale che stermina i bambini». Sechi: «Su questo non la pensiamo allo stesso modo». Bertinotti. «Per fortuna, se no ero preoccupato». Con Fini si riparte dalla Costituzione e dalla necessità di aggiornarla. L'exleader diAn difende il semi-presidenzialismo francese: «Resta il mio modello». Perché se l'obiettivo è la «stabilità dell'esecutivo, quella francese è una via importante». Entrando nel dettaglio della riforma presentata dal governo, Fini la difende: «Non è vero che se vengono intaccati i principi costituzionali del capo dello Stato». È vero che «il combinato disposto tra elezione diretta del premier e legge elettorale nuova, con un premio di maggioranza (ma con una soglia minima da individuare), fa sì che il capo dello Stato si trova di fronte a una doppia certezza: c'è una maggioranza e c'è un premier. In questo senso viene meno uno dei suoi poteri, che però non è un potere costituzionale». Così come il premierato riduce la discrezionalità per cui, quando si apre una crisi, «il capo dello Stato può verificare se c'è un'altra maggioranza, diversa a quella uscita dalle elezioni». Un caso accaduto più volte in Italia e che, dice Fini, «ha provocato l'affievolirsi della fiducia del cittadino». Anche se poi, aggiunge, «è sempre la politica a dare le carte». Si passa alla politica estera: «Non c'è dubbio», osserva Fini, «che l'elezione di Trump ha cambiato il modo in cui si intende politica estera e diplomazia. Trump ha posto sul tavolo una questione inimmaginabile: o la solidarietà transatlantica finisce nel dimenticatoio o va cambiata completamente». In sintesi, «la Nato dovete pagarvela». Ma, prosegue Fini, «non lo considero un elemento negativo». Vuol dire che «La Bella addormentata nel bosco, l'Unione europea, ha aperto gli occhi». In ogni caso, quello che è accaduto dopo l'incontro nello Studio Ovale dimostra «la pragmaticità del carattere di Trump». Sul presidente Usa, Fini è attendista: «La sua efficacia la verificheremo coi fatti». Compresi i dazi. «È un tycoon, minaccia ma poi va a trattare». Fa bene, dunque, Meloni a mantenere una posizione mediana: «L'Italia è un paese fondatore dell'Unione europea», ma è anche un bene «essere un interlocutore ascoltato a Washington».
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