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Carioti: la Cpi si è screditata da sola. E ora paga per i propri errori
25-01-2025, 13:39
La Corte penale internazionale si lamenta perché anche le nazioni democratiche che sinora l'hanno presa sul serio (non Stati Uniti, Israele e India, dunque, che non l'hanno mai riconosciuta) hanno smesso di farlo. I suoi difensori sono scesi in campo. Vladimiro Zagrebelsky ha denunciato sulla Stampa che esiste «un diffuso rifiuto di considerare la Corte» e Laura Boldrini scrive su Tpi che «il diritto internazionale sembra non valere più, per il nostro governo». Almeno su questo, loro e gli altri hanno ragione: l'istituzione alla quale tengono è morta. Trattasi, però, di suicidio. Quando il tribunale dell'Aja ha chiesto l'arresto del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e del suo ex ministro della Difesa, Yoav Gallant, il governo Meloni ha risposto che avrebbe ignorato la richiesta. «Ci sono delle immunità, e le immunità vanno rispettate», ha spiegato Antonio Tajani. Lo stesso ha fatto il primo ministro polacco Donald Tusk: il 27 gennaio Netanyahu e Gallant potrebbero partecipare alle commemorazioni della Shoah, ad Auschwitz o altrove sul territorio della Polonia, con la certezza che nessuno darebbe seguito a quel mandato di cattura. Sull'altra sponda dell'Atlantico, peggio ancora. Il repubblicano Marco Rubio, nuovo segretario di Stato (l'equivalente del nostro ministro degli Esteri), ha spiegato al Senato di Washington che quella Corte, col mandato di arresto per Netanyahu, «ha causato un danno tremendo alla propria credibilità». Rubio si muove in sintonia con Donald Trump: tra i primi ordini esecutivi firmati dal nuovo presidente degli Stati Uniti ce n'è uno che rende possibile il varo di sanzioni contro il procuratore capo (che dal 2021 è il britannico di origini pakistane Karim Khan) e altri giudici della Cpi. Insomma, è il momento peggiore nella storia di questo tribunale nato nel 2002. A difenderlo è rimasta solo l'Unione europea, peraltro con scarsa convinzione e senza l'appoggio di Stati importanti come Italia, Polonia e Ungheria. Quest'ultima, formalmente, riconosce la giurisprudenza della Corte, ma quando dall'Aja è partito l'ordine di cattura nei confronti di Vladimir Putin, il primo ministro Viktor Orbán ha fatto sapere che mai lo avrebbe arrestato. E quando la stessa cosa è accaduta a Netanyahu, il leader ungherese ha sfidato i giudici internazionali invitandolo a Budapest e garantendogli che quella sentenza non avrebbe avuto effetto. Se col presidente russola reazione di Orbán, rimasta co munque senza conseguenze, aveva fatto rumore, nel caso di Netanyahu e Gallant il capo del governo magiaro si è trovato dalla parte dei “buoni”, a fianco del democratico Joe Biden, che ha bollato come «scandalosi» i mandati d'arresto nei confronti dei due israeliani, perché «qualunque cosa la Cpi possa insinuare, non c'è equivalenza, nessuna, tra Israele e Hamas». È l'isolamento che affligge le istituzioni quando si screditano. Vale per i governi democratici, che pure sono legittimati dal voto popolare: nelle scelte importanti, hanno comunque bisogno della fiducia degli elettori. E a maggior ragione vale per un tribunale del genere, privo sia della legittimazione democratica sia, a differenza delle Corti nazionali, dell'ancoraggio al vituperato Stato nazione, rimasto oggi l'unica istituzione capace di rispondere, bene o male, alle domande degli individui. La Corte penale internazionale ha perso ciò che restava della sua credibilità lo scorso 21 novembre, nel momento in cui emetteva quelle richieste d'arresto per Netanyahu e Gallant, accusati di «crimini contro l'umanità» e posti sullo stesso piano dei leader di Hamas mandanti della strage, dei rapimenti e degli stupri del 7 ottobre. Quel giorno è diventata definitivamente un'istituzione-zombie, i cui ordini possono essere ignorati senza creare vero scandalo né riprovazione all'interno della comunità internazionale. Ciò che è avvenuto con il mandato di arresto nei confronti del libico Najeem Osema Almasri, capo della polizia giudiziaria di Tripoli e responsabile della prigione di Mitiga, è conseguenza. L'uomo è accusato dalla Corte di crimini di guerra e contro l'umanità, ma le autorità italiane, dopo l'arresto ad opera della Digos, lo hanno rilasciato, consentendogli di tornare in Libia. E nessuno, tranne gli esponenti della sinistra italiana e i giudici della Cpi, ha ritenuto la questione degna d'interesse. Anche perché quei magistrati hanno emesso il mandato di arresto nei confronti del libico solo quando era arrivato in Italia, dopo essere stato sette giorni a Londra e averne trascorsi altri sei tra Bruxelles e Bonn: tutti luoghi nei quali avrebbe potuto essere arrestato, dal momento che pure Regno Unito, Belgio e Germania hanno ratificato lo Statuto di Roma, col quale fu creato il tribunale dell'Aja. Un episodio, quello di Almasri, che dovrebbe togliere altra credibilità alla Corte, se solo gliene fosse rimasta un po'.
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