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Daniele Capezzone: non lapidate il padre di Filippo Turetta
28-07-2024, 10:42
Il figlio - l'assassino Filippo Turetta- la sua pena deve ancora averla, e, come abbiamo scritto più volte qui su Libero, non c'è per lui alternativa ipotizzabile rispetto all'ergastolo: troppo grave e crudele il suo delitto, totalmente premeditata l'azione, non ci sono scuse. Tutto è contro di segue a pagina 17 Una delle immagini pubblicate da “Giallo” Nicola Turetta ed Elisabetta Martini - la loro condanna l'hanno già ricevuta, una specie di dannazione feroce: toccare la mano del figlio e sapere che è la mano di un omicida, abbracciarlo e sapere di stringere il corpo di un giovane uomo che ha agito come una belva. E allora, dopo questa disumana sciagura che il destino ha scaraventato addosso a quei genitori, a che serve accanirsi crudelmente su di loro? E invece proprio questo è accaduto nelle scorse ore, visto che in base al solito circuito perverso (intercettazione, inserimento della trascrizione nel fascicolo processuale, pubblicazione di tutto il malloppo su tre giornali), sono finite nel tritacarne mediatico-giudiziario le parole che il padre, accompagnato da sua moglie, ha rivolto al figlio in occasione del loro primo incontro nel carcere di Verona, il 3 dicembre scorso. Immergiamoci nel contesto, prima di vivisezionare le parole. Nei giorni precedenti, un possibile incontro era saltato: Nicola ed Elisabetta non erano entrati nel penitenziario, non avevano seguito l'avvocato, avevano rinviato. Non erano ancora pronti, riferiscono scarni lanci di agenzia dell'epoca. Anche lo psicologo del carcere doveva preparare meglio Filippo, secondo altre versioni. Ma forse mancava ben più dell'opera di un professionista chiamato al compito impossibile di trovare una parola per dire l'indicibile: mancava la possibilità stessa di sostenere uno sguardo, di scoprire il vero volto del bambino e poi del ragazzo che credevano di conoscere. Dopo di che, e siamo al 3 dicembre, l'incontro si svolge, e il padre pronuncia queste parole indubbiamente sbagliate e inaccettabili per noi che le rileggiamo a freddo da fuori: «Hai fatto qualcosa, però non sei un mafioso, non sei uno che ammazza le persone, hai avuto un momento di debolezza.Non sei un terrorista. Devi farti forza. Non sei l'unico. Ci sono stati parecchi altri. Però ti devi laureare». Nel corso del dialogo, Filippo chiede al padre se abbia perso il lavoro a causa del suo delitto. Ma il padre non parla di sé, continua a restare concentrato sul figlio: «Ci sono altri 200 femminicidi. Poi avrai i permessi per uscire, per andare al lavoro, la libertà condizionale. Non sei stato te, non ti devi dare colpe perché tu non potevi controllarti». Frasi inappropriate, per chi come noi pensa alla povera Giulia Cecchettin trucidata da Filippo. E anche perché danno la sensazione di circoscrivere la portata dei fatti, di attenuarla. Ma - ecco il punto - chi siamo noi per giudicare la tempesta emotiva di un padre che rivede suo figlio dopo un delitto così atroce? Chi siamo noi per sottovalutare il fatto che il padre potesse ritenere che suo figlio fosse in quel momento a forte rischio di suicidio, e che dunque intendesse in qualche modo - anche con frasi assai discutibili - confortarlo e indicargli un futuro possibile? Chi siamo noi per esaminare alla moviola (anzi, ad un Var etico di cui ci autonominiamo manovratori e gestori) un momento che doveva rimanere privato, e che così era stato certamente interpretato e vissuto dai genitori di Filippo? Semmai - ecco il punto c'è da chiedersi perché una conversazione dolorosa ma irrilevante ai fini del giudizio sia stata inserita nel fascicolo processuale e con ciò, inevitabilmente, data in pasto a tutti. Era necessario? Proprio no. Era opportuno? Nemmeno. L'unico effetto, deflagrato già ieri, è stato quello di ricoprire di fango e insulti due persone innocenti, quei due genitori, quelle due anime in pena. Qui a Libero non parteciperemo alla loro lapidazione, e anzi proviamo un qualche imbarazzo per chiunque si senta in grado di psicanalizzare o giudicare un papà e una mamma dal cuore distrutto, schiantati da una eventualità abnorme, impensabile, diabolica. Il padre, sembrando dignitoso e straziato, era arrivato a dire, nei giorni immediatamente successivi al delitto, che avrebbe preferito un altro finale: meglio cioè se suo figlio si fosse ucciso. Quanto alla madre, in tutti questi mesi ha centellinato le parole, resa quasi muta da una tragedia assoluta. Immaginateli per anni a lavorare nel ristorante di famiglia: un lavoro duro, dalla mattina troppo presto alla sera troppo tardi, preoccupati – immagino – di garantire al figlio il pane, gli studi, lo sport. Convinti di aprirgli una strada, di dargli quello che potevano (forse troppo, ma – di nuovo – chi può dirlo?), di aiutare un fiore a sbocciare. Avranno sbagliato? Certo che sì, è molto probabile, anzi quasi sicuro. Ma ora stanno transitando da una stazione all'altra di una sanguinosa via crucis, anche loro in qualche modo vittime collaterali del delitto del figlio. No, lapidarli non servirà a niente. Meno che mai a farci sentire migliori.
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