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Cultura e Spettacolo
È ancora possibile la poesia? Le risposte dei poeti premi Nobel
Oggi 14-12-25, 09:06
Stando ad Amleto, la parola può scivolare nell’orecchio come veleno. Si preferisce pensare che sia un pharmakòn, alternativamente veleno o medicina. Concordiamo comunque sul fatto che il vero destinatario di quella poetica rimanga sconosciuto, come afferma Eugenio Montale nella sua Lecture per il conferimento del Nobel per la Letteratura, nel 1975, e che viaggi per toccare vite e paesi differenti. Quali siano le conseguenze possiamo scoprirlo leggendo il discorso di Seamus Heaney, scritto anch’esso per il Nobel e ora confluito, insieme a quelli di Montale e via via fino a Louise Glück, nel prezioso volume a cura di Roberto Galaverni, È ancora possibile la poesia. Poetry Nobel Lectures (Vallecchi, pp. 320, euro 18). Prezioso perché infila, una dopo l’altra, le riflessioni di insigni poeti, provando quanto la poesia abbia un potere e un dovere: non rimanere indifferente alle cose del mondo e alle cose dell’umano. E debba e possa fare qualcosa: continuare a raggiungere i più diversi lettori per portare incanto e meraviglia, ma anche la consapevolezza che bisogna tenere la schiena dritta, e usarla, quella parola, per testimoniare il mistero e l’orrore che ci circondano, tenerla viva e disponibile a creare ponti di fratellanza, mani che si tendono e, se non salvano, pur rendono l’istante più accettabile. Heaney, poeta nordirlandese vincitore nel 1995, racconta un episodio successo durante la guerra civile che ha insanguinato le strade del suo Paese per decenni. Una sera di gennaio del 1976, un pulmino di operai fu fermato da un gruppo di uomini armati che intimò loro di scendere e di mettersi in linea. C’è qualche cattolico? chiesero. L’unico, ormai convinto che fossero paramilitari protestanti, si accinse a fare un passo avanti, quando uno dei compagni gli prese la mano come a dire che non l’avrebbero denunciato. Lui, quel passo lo fece lo stesso, ma a essere fucilati furono tutti gli altri. Quegli uomini erano, evidentemente, membri della Provisional Ira. Scrive Heaney: «La nascita del futuro che desideriamo sta sicuramente nella contrazione che provò quel cattolico terrorizzato sul ciglio della strada, quando un’altra mano strinse la sua, non nei colpi di arma da fuoco che seguirono, assoluti e desolati, e tuttavia parte anch’essi della musica di ciò che accade». LE PAROLE Il poeta, che fu a lungo scisso tra il dovere morale di prendere posizione e quello di tenersi alla larga dalle pastoie di un ideologismo che avrebbe potuto avvelenare la fonte della sua ispirazione, ricorda di quando, bambino in un Derry rurale, ascoltava le parole alla radio mischiarsi alle voci degli adulti e ai respiri degli animali nella stalla o al vento che scuoteva il cavo dell’antenna legata al castagno. Le parole già formavano in lui la geografia di un oltre, la mappa delle lingue e dei segni atta a fargli balenare l’idea che la poesia abbia l’esigenza di riaccordare il mondo e che il radicamento locale possa conferirle autenticità universale. Quello stesso radicamento che permette un’attitudine mitopoietica capace di far sorgere un’intera cultura, vederla fiorire, come racconta un amico di Heaney, altro Nobel 1992, e cioè Derek Walcott. Originario delle Antille, poeta che ha saputo creare un’epica nuova modellata sulla storia e le peculiarità del suo Paese, Walcott sapeva bene che «l’arte antillana è questa riparazione delle nostre storie in frantumi». «Private della lingua nativa» scrive «le tribù prigioniere e sfruttate ne creano una nuova, accumulando e custodendo frammenti di un vocabolario antico, epico, proveniente dall’Asia e dall’Africa, ma con un ritmo innato ed estatico che la schiavitù e lo sfruttamento non possono sconfiggere». Ancora una volta, notiamo le traiettorie del verbo che si fa tempio intimo dell’udito o luogo della presenza che richiede fede, così per Walcott come per Octavio Paz, Nobel 1990. Anche i suoi versi sono il risultato di un percorso o di una colonizzazione. Scrive: «Le lingue nascono e crescono in un suolo; le nutre una storia comune. Strappate al loro suolo natale e alla loro specifica tradizione, piantate in un mondo sconosciuto e ancora innominato, le lingue europee hanno messo radici nelle terre nuove, sono cresciute con le società americane e si sono trasformate». Nell’avvicendarsi delle voci, il volume accasa la riservatezza della comunicazione che si instaura tra poeta e lettore- un patto, quello di Louise Glück, tra eletti, qualcosa di essenziale e privato; un tête-à-tête, per Iosif Brodskij, per il quale «comporre versi è un poderoso acceleratore della coscienza, del pensiero, della percezione del mondo» - rispondendo alla domanda di Montale che dà il titolo al volume curato da Galaverni. Se la poesia ha una speranza di sopravvivenza, quella riposa proprio sulla possibilità di giungere a orecchie nuove che riescano a creare misteriose connessioni contaminandosi fino a giungere a un dialogo costruttivo, o cospirativo, per cercare di rimettere il mondo sui suoi cardini.
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