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Fausto Carioti: adesso Mattarella zittisce i gufi, cresciamo più di Parigi e Berlino
31-10-2024, 11:58
Prendere il Luigi Einaudi che tanto fece per difendere il ruolo degli imprenditori e di chi lavora per loro. Come quando, nel 1928, scrisse che «vero dominatore del mondo economico non è colui che fornisce la materia bruta “capitale”, ma è l'uomo. L'uomo intelligente, che sa ed agisce; dall'amministratore delegato ai direttori, ai tecnici, agli operai». Poi prendere il Sergio Mattarella di ieri, che elenca i primati dell'economia italiana e spiega che «il merito è delle imprese, dei capitani d'impresa, dei loro collaboratori, insieme alle lavoratici e ai lavoratori che in esse operano». E scoprire che il giurista palermitano proveniente dall'Azione cattolica su questi temi parla come l'economista piemontese suo predecessore, padre dei liberisti italiani. C'è continuità al Quirinale, anche tra figli di mondi così diversi. L'occasione si presta: è la cerimonia di consegna delle insegne ai Cavalieri del lavoro nominati dal Capo dello Stato. Nel salone dei corazzieri, davanti a lui, ci sono Marina Berlusconi e altri ventiquattro, premiati assieme ad altrettanti studenti d'eccellenza, Alfieri del lavoro. L'evento giusto per spiegare (anche a quella sinistra che ancora non ci arriva) che la libera impresa non è un ostacolo al progresso della società, ma ciò che lo rende possibile. Mattarella lo fa con parole chiarissime. Esprime ai Cavalieri la riconoscenza della repubblica, perché «generare ricchezza è funzione sociale». Dice che «il successo delle imprese italiane è un valore per la comunità nazionale», che «le aziende, le realtà produttive, sono motrici di un benessere ampio delle famiglie, sviluppano filiere, fanno crescere territori». E che sono state proprio «la vivacità delle imprese e la loro capacità di affrontare le sfide del mercato» che hanno permesso di riprenderci dopo il Covid. Cita proprio la «grande lezione» di Einaudi, il quale sosteneva che «principi democratici e progresso economico si tengono uniti». Anziché evocare i luoghi comuni che girano a sinistra sulla redistribuzione della ricchezza, insomma, Mattarella insiste sull'altra fase, quella precedente e più importante, senza la quale nessuna redistribuzione sarebbe possibile: la produzione della ricchezza. E nel passaggio che dedica agli immigrati mette l'accento sulla loro integrazione, da ottenere tramite quello «strumento possente» che è il lavoro. Difende il libero mercato europeo, invitando a lasciare alle spalle «politiche protezionistiche o, peggio, autarchiche, di controllo dirigista». Un grande elogio dell'imprenditoria privata, dunque, quando è fatta come si deve. Chi guida il settore pubblico ha il compito di non ostacolarla: occorre «colmare ritardi accumulati nel tempo, a cominciare dalla produttività, dal funzionamento della pubblica amministrazione». Già questo è un bel percorso contromano rispetto ai cliché diffusi sull'argomento, non solo a sinistra. Ma Mattarella va oltre e dice cose che dall'inizio della legislatura, con uguale nettezza, si sono sentite solo da Giorgia Meloni. Contro la retorica piagnona del declino del Paese e dell'impoverimento dei lavoratori, come risposta a chi insiste a dipingere un'Italia ultima ruota del carro europeo, il capo dello Stato snocciola fatti. Innanzitutto: «L'Italia è tornata a crescere. Se consideriamo gli ultimi cinque anni, il Pil nazionale è aumentato percentualmente più di quelli francese e tedesco». Merito proprio delle imprese, dei loro investimenti e della loro innovazione, grazie ai quali «l'Italia non è seconda ad alcuno», se è vero che nelle sue fabbriche, nel 2021, «si registravano 13,4 robot ogni mille addetti, rispetto ai 12,6 in Germania e ai 9,2 della Francia». Questo, prosegue Mattarella, mette in modo un circolo virtuoso. Perché assieme all'economia cresce l'occupazione, «e così i contratti di lavoro a tempo indeterminato». Le esportazioni continuano a registrare segno positivo, e «i dati di Bankitalia certificano un balzo del nostro Paese: la posizione netta sull'estero, a giugno di quest'anno, era creditoria per circa 225 miliardi di euro. Una dimensione enorme: il 10,5% del Pil». Qui c'è il passaggio più duro, l'unico polemico del suo discorso: è «irragionevole», dice Mattarella, che tutto questo «non venga notato dalle agenzie di rating nel valutare prospettive e affidabilità dell'economia italiana». Ed è ovvio che non va tutto bene, che ci sono spazi per miglioramenti anche enormi, nella macchina dello Stato e nell'entrata dei giovani nel mercato del lavoro, che in Italia avviene troppo tardi e causa «emorragia verso l'estero di energie preziosissime». Ma la direzione del racconto del presidente è l'unica giusta: l'Italia ha eccellenti imprenditori che, nonostante gli ostacoli della pubblica amministrazione, creano un'economia tra le più dinamiche al mondo, e chi non vede questa realtà è bene che resti lontano da istituzioni e posti di comando.
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