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Fausto Carioti: quel giornalismo che s'inchina alla Boccia
08-09-2024, 10:46
Chi tocca Maria Rosaria Bocca ne esce a pezzi. Vale per il ministro costretto alle dimissioni, vale per il povero marito che ancora non è riuscito a liberarsene e vale per i giornalisti che l'hanno avuta tra le mani. Pensavano di usarla per fare lo scoop che avrebbe cambiato la storia della legislatura, è finita che ha intortato pure loro. L'hanno trattata come se fosse Mark Felt, la “gola profonda” del Fbi che consentì al giornalista del Washington Post Bob Woodward di far esplodere il Watergate. Cercavano da lei gli “hard facts”, le prove inconfutabili di un malaffare che parte dal ministero della Cultura e arriva in alto quanto basta da far tremare palazzo Chigi e l'intero consesso del G7. Meloni come Nixon. Si sono trovati davanti a una persona che di prove non ha portata mezza: non una fotografia, non uno screenshot, non un documento. Molte sensazioni, in compenso: quelle cui uno ricorre quando non ha nulla di concreto in mano. E tante allusioni dal suono minaccioso. Come ha fatto nell'intervista televisiva a Marianna Aprile e Luca Telese, con quella sua grammatica un po' così: «In questa verità non ci sono solo io e il ministro, ci sono coinvolte tante donne che non stiamo ancora menzionando e che per dovere di verità dovrei menzionare, e non mi va». Chissà se anche domani non le andrà. E poco dopo, a rafforzare il concetto: «O (il ministro) racconta la verità o sarò costretta io a raccontarla. Ho ascoltato telefonate, ho letto messaggi. Ci sono dettagli che conosco». Non è un'intervista, è un microfono acceso davanti a una lasciata libera di mandare “avvertimenti” a chi vuole. Le uniche “rivelazioni”, se così si possono chiamare e ammesso che siano vere, riguardano la vita sentimentale di Gennaro Sangiuliano: «Lui racconta a tutti di non avere un reale rapporto con la moglie e che loro si sono allontanati da tantissimi anni. Ma queste sono cose loro personali». Così personali che la bionda di Pompei le va a raccontare in televisione. E comunque: dov'è la notizia che fa tremare il governo? Non l'è stata fatta una domanda scomoda, che uscisse dal copione preparato col suo avvocato. Zero sul suo marchio taroccato «Fashion Week Milano Moda», sul perché nessuno in parlamento abbia organizzato più di un convegno con lei, sugli «intergruppi parlamentari» (associazioni informali senza alcun valore istituzionale) che si vanta di aver ideato. Nessuno che le chieda chi ha fatto scattare e messo in giro le fotografie di lei accanto al ministro senza la fede al dito: eppure la signora un'idea la dovrebbe avere, varrebbe la pena di scavare. Nessuna insistenza sulle sue contraddizioni e sui punti che avrebbero potuto metterla in difficoltà, e dire che ce n'erano. Al vicedirettore della Stampa, Federico Monga, si presenta come «imprenditrice da vent'anni nel settore del wedding», quelli che un tempo si chiamavano matrimoni. Ai due di “In Onda” come organizzatrice di grandi eventi («Quando organizzo un grande evento piuttosto che una serie di grandi eventi sono a strettissimo contratto con i miei collaboratori e con i soci...»), che è una cosa assai diversa. Nessuno pone la domanda più ovvia a una che, pur avendo un'impresa, ha fatto tutto questo casino perché non le è stato dato un lavoro non pagato: ma lei quanto ha fatturato nell'ultimo anno? E si capisce pure il motivo: se la credibilità del personaggio su cui si punta per sollevare il grande scandalo frana, tutto ciò che dice non ha più valore. Ma la sua versione non sta in piedi comunque, le sue “verità” fanno a pugni l'una con l'altra. Ad Aprile e Telese racconta che da Sangiuliano avrebbe accettato solo un incarico non retribuito perché è tanto impegnata con le sue aziende e non avrebbe il tempo di svolgerne uno remunerato: «Io non mi posso spostare da dove sono». E nessuno dei due che si azzardi a chiederle: scusi, ma allora come pretendeva di organizzare i «grandi eventi» in qualità di consigliere del ministero della Cultura? Nei ritagli di tempo? Nell'intervista alla Stampa dimostra di sapere solo che i viaggi col ministro non li ha pagati lei, ma non ha alcuna prova che i costi li abbia coperti il ministero anziché Sangiuliano, e in mezzo c'è tutta la differenza del mondo. Non dice se ha avuto accesso a informazioni riservate, ma non è per reticenza: è perché non le sa distinguere dalle altre. E chi la intervista, riguardoso (quel riguardo che oggi nessun giornalista userebbe per un ministro), si guarda bene dal farle notare che sono giorni che ritrita le stesse cose senza tirare fuori una prova, e dal porle la domanda che ci siamo fatti in tanti: tutto qui? È così pure per il «ricatto» a Sangiuliano da parte del direttore di un non precisato settimanale, su cui tutte le testate di sinistra hanno sguazzato. «Sicuramente ci sono delle circostanze, delle situazioni, dove a me personalmente è sembrato così», dice davanti alle telecamere di La7. Qualunque giornalista sa che il «personalmente mi è sembrato» non esiste: lanciare un'accusa del genere in un articolo, con quel nulla a supportarla, garantisce una condanna per diffamazione. A lei, però, lo lasciano fare. Il contraddittorio, il sale di ogni intervista, è finalmente abolito, rimpiazzato dall'allegra complicità tra intervistatore e intervistata in nome del nemico comune. Al punto da scambiarsi i ruoli, come quando lei chiede a Telese: «Ma quante cose ha detto il ministro che non sono vere?». E lui, aria di chi la sa lunga: «Eh, lo so».
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