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Cultura e Spettacolo
George Orwell, il ribelle politico che smascherò i dittatori
Oggi 27-12-25, 14:50
Non ha smesso i panni del veggente di un futuro da incubo, George Orwell, eppure la sua, quella di 1984, non era previsione ma monito: «Non lasciate che succeda. Dipende da voi» disse a una conferenza stampa il 15 giugno 1949. Il giorno dopo ribadì privatamente i concetti: «Non credo che il tipo di società che descrivo debba necessariamente arrivare, ma sono convinto che qualcosa del genere potrebbe verificarsi». La storia è nota: in una Londra oppressa dal regime del Grande Fratello, Winston Smith tenta di sottrarsi al controllo del Partito, che manipola linguaggio, memoria e realtà. La sua breve ribellione politica e amorosa viene annientata, rivelando un sistema in cui il potere conquista l’ultima frontiera: pensiero e coscienza. Luca Fumagalli, studioso di autori del cattolicesimo britannico degli ultimi due secoli e un saggio sulla distopia all’attivo, traccia ora un profilo del romanziere inglese che con i suoi libri ha colonizzato il nostro immaginario, George Orwell. L’arte di uno scrittore politico (Ares Edizioni 2025, pp. 208, euro 15, con una prefazione di Paolo Gulisano). Nell’agile volumetto, Fumagalli cerca di ristabilire i parametri per analizzare correttamente la sua figura e la progressione delle sue idee, che prendono corpo transitando dalla vita personale alla prosa. Un avanzamento organico e faticoso ottenuto grazie alle diverse prove di scrittura: dai saggi (Omaggio alla Catalogna e Nel ventre della balena, per esempio) ai romanzi considerati minori fino ai più celebri, La fattoria degli animali e 1984. Fumagalli lo segue con la precisione dell’esperto che non si concede digressioni sentimentali, ma si attacca ai fatti esaminando biografia e opere complete. Dai Collected Essays, Journalism and Letters trae la massima a cui si può a buon diritto conformare il credo di Orwell: «per scrivere in un linguaggio semplice e forte, bisogna pensare in modo intrepido, e se si pensa in modo intrepido non si potrà più essere politicamente ortodossi». Eric Arthur Blair, vero nome di Orwell, nacque nel 1903 a Motihari, allora parte dell’Impero britannico. Cresciuto in Inghilterra, studiò a Eton ma non proseguì all’università; entrò invece nella Indian Imperial Police, prestando servizio in Birmania: un vissuto che gli fece maturare una profonda avversione per l’imperialismo. Rientrato in Europa, si diede alla scrittura, anche giornalistica, fra Londra e Parigi, in condizioni di povertà. Nel 1936, poi, partì volontario per la Guerra civile spagnola, combattendo in Catalogna con il Poum, esperienza fallimentare che rafforzò la sua critica verso ogni forma di totalitarismo. Gli anni della Seconda guerra mondiale lo videro impegnato alla Bbc e come editorialista politico. [[ge:kolumbus:liberoquotidiano:45188646]] BATTAGLIE DI CIVILTÀ Qualche anno fa, Ian McEwan si è interessato al delicato crinale che separa impegno politico e integrità estetica prendendo a modello i casi di Orwell e Henry Miller. Il secondo, edonista e accanito bohémien, nutriva un profondo disprezzo per la militanza. In una lettera scanzonata a Lawrence Durrell scrisse che avrebbe certamente scongiurato l’ascesa del nazismo se solo avesse avuto cinque minuti con Hitler per farlo ridere. Orwell, viceversa, si dedicò attivamente alla causa antifascista e alla giustizia sociale. Ma, Nel ventre della balena, difende il diritto di ricavarsi uno spazio di silenzio dove coltivare l’immaginazione. Una battaglia di civiltà che passa dalla parola che circola, anche clandestinamente, per attestarsi nella forma-libro. Oltre ai classici della distopia che contano scrittori come Huxley, Golding e Burgess, Harris, Ishiguro, Eggers e Atwood, possiamo includere Henrik Stangerup, con L’uomo che voleva essere colpevole, una lotta in nome della facoltà di riconoscersi colpevoli, in un mondo che ha abolito la libertà sostituendola con una benevola, soffocante rieducazione, anche linguistica; e c’è Philip Dick, con La svastica sul sole (diventata anche una serie tv), dove l’elemento sovversivo in grado di riabilitare la verità storica è veicolato da un libro, La cavalletta non si alzerà più, scritto da un uomo soprannominato the man in the high castle consultando l’I Ching. In una società iperconnessa, alterata e tramata di fake news come la nostra, infine, il fantomatico Xun compila un testo intitolato Ipnocrazia (in realtà frutto dall’azzardo di Andrea Colamedici), dove si dice: «La vera resistenza all’ipnocrazia non risiede nel tentativo di smascherare le simulazioni, ma nella capacità di generarle a abitarle come si abita un sogno» - che è forse l’estremo lascito dell’autore del doublethink, la sfida ontologica di resistere creativamente fuori e dentro la realtà, come d’altronde fece (e Fumagalli lo ribadisce). Orwell fu capace di arrischiarsi nei regni dell’immaginazione ma anche di accogliere il bene più prezioso, la normalità del fare e del proprio scrivere, ben sapendo che si doveva smettere la finzione di poter controllare il mondo: «Accettatelo così com’è» afferma «sopportatelo, registratelo».
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