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Giovanni Sallusti: la potenza di Trump smentisce i suoi critici
20-07-2024, 13:54
Non c'è niente da fare, il fenomeno politico che risponde al nome di Donald J. Trump sfugge proprio al Giornalista Collettivo. Appena pensano di averlo incasellato in una formula, quello si dimena, deborda, la capovolge. Allora, piuttosto che scuotersi dalla propria pigrizia analitica, preferiscono postulare direttamente la schizofrenia del soggetto. È il caso della teoria dei “due Trump”, che già ieri stava prendendo piede in rete per maneggiare il discorso di accettazione formale della candidatura alla convention di Milwaukee, un'ora e mezza ben poco maneggevole. C'era il canovaccio istituzionale preparato accuratamente dallo staffe poi ci sono state le sortite eversive del Puzzone che va a braccio: hanno pensato di cavarsela così. La verità è che Donald Trump non è né “istituzionale” in senso convenzionale (pena la rinuncia al proprio tono originario, l'irruzione dell'“elegia” americana cantata dal vice Vance nei meandri protocollari del Deep State) né tantomeno eversore (anzi, la sua scalata al Gop si spiega anche con il ritorno di certe parole d'ordine nativiste e libertarie della tradizione a stelle e strisce). Donald Trump, piuttosto, é ormai tutt'uno con il trumpismo, che è un fenomeno politico strutturale della società americana, e quindi occidentale. Così inquadrato, il discorso di Milwaukee assume improvvisamente organicità e coerenza. A partire dalla frase-manifesto: «Riporterò in auge il sogno americano. Questo è ciò che faremo. Vi chiedo di essere felici riguardo il futuro del nostro Paese». Vi chiedo di tornare a esercitare quel diritto inalienabile al perseguimento della Felicità previsto dalla Dichiarazione d'Indipendenza (e solo da essa). è la specificità del sogno americano, che Trump vuole anzitutto restaurare, per questo le cose che rimprovera di più alla “leadership totalmente incompetente” di Biden sono “un'inflazione che sta rendendo la vita insostenibile alle famiglie” e “l'incubo al confine” col Messico, ormai colabrodo geopolitico ed esistenziale. Benessere economico e gestione dell'immigrazione, sono i fondamentali senza cui non c'è America. Sul secondo tema, ovviamente, c'è la sortita che garantisce il titolo scandalistico alle agenzie nostrane: «Prometto la più grande operazione di deportazione nella storia del nostro Paese». Per inquadrarla onestamente nella cronaca e nella storia d'Oltreoceano, occorre però riportare il seguito: «Anche più grande di quelle del presidente Dwight Eisenhower di molti anni fa. Sapete, era un moderato ma credeva fortemente nei confini». Qui Trump si riferisce all'Operazione Wetback, voluta da “Ike” nel 1954 per riportare oltre frontiera una quota degli immigrati illegali messicani. Diciamo che è assai spericolato accusare di istinti parafascisti una proposta ispirata alla presidenza di colui che sconfisse il Reich a cannonate (ma ovviamente lo stanno già facendo). C'è stato anche l'esordio legato all'attentato, che ormai è epopea. «Non sarei dovuto essere qui. Ma non è così: io sono qui davanti a voi per grazia del Dio onnipotente». Di nuovo, occhio a “europeizzare” troppo la dichiarazione, dietro cui rimbomba invece un provvidenzialismo metapolitico tutto americano. C'è stato l'invito a «non demonizzare le idee politiche dell'opposizione» repubblicana, mettendo «immediatamente fine alla strumentalizzazione del sistema giudiziario», bilanciato dall'assicurazione, quella sì, istituzionale e pacificatrice, per cui «sarò il presidente di tutta l'America». E poi, soprattutto, ci sono le direttrici di governo. «Saremo dominanti nella fornitura di energia, non solo per noi, ma riforniremo il resto del mondo con numeri che nessuno ha mai visto»: oltre la stessa autonomia energetica, per rafforzare il predominio geopolitico. Con una parola d'ordine: «Trivellare, trivellare, trivellare». Puro industrialismo made in Usa, il declinismo gretino è roba buona per la Commissione Europea. Ecco, la politica internazionale: «Metteremo fine ad ogni singola crisi che è stata creata dall'amministrazione in carica, inclusa la orribile guerra tra Russia e Ucraina. Con me non sarebbe mai successo». $ la rivendicazione della deterrenza americana, ovvero il peggiore incubo di Vladimir Putin e di tutte le canaglie planetarie, con buona pace delle grottesche caricature russofile di The Donald che infestano il dibattito italico. Sul focolaio mediorientale, Trump si rivolge direttamente ad Hamas, con le parole che ogni americano vuole sentirsi dire: «Vogliamo indietro i nostri ostaggi prima del mio nuovo mandato o pagherete un caro prezzo». Ma è alla sfida ultimativa, quella col gigante comunista, cui guarda anzitutto, assicurando che ripristinerà la politica dei dazi per contrastare la concorrenza sleale su scala globale di Pechino, e riprendendo anche il tormentone lessicale sul «China virus», quel Covid che ha alterato «il risultato elettorale del 2020» (e può essere opinabile) e che ha avuto genesi fattuale in Cina (ed è incontestabile). Insomma, ieri non si è avvistato il sovvertitore dell'ordine americano, l'autocrate intento a bombardare la Statua della Libertà di cui molti vaneggiano. Ma nemmeno l'improvviso moderato, il neocentrista convertito sulla via delle burocrazie federali che molti auspicavano. C'è stato il Maga, che non è (solo) marketing social, ma è un'agenda politica. Rendere di nuovo grande l'America, di nuovo luogo della produzione, di nuovo terra delle opportunità (meno tasse e regole, off course), di nuovo credibile nella sua proiezione di potenza. C'è stato il trumpismo, fatevene una ragione.
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