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Iacometti: dietro l'assalto a Mediobanca la rivincita degli imprenditori
25-01-2025, 08:55
Qualcuno ieri ha parlato di nuovi «furbetti del quartierino», altri di «far west bancario». C'è poi chi ha riesumato la famosa telefonata di Piero Fassino trasformandola in «abbiamo una Mediobanca». Battute e calembour che non solo non aiutano a comprendere lo scenario, ma ci riportano ad un'epoca di cui, se proprio dobbiamo essere sinceri, è proprio Mediobanca, la preda designata dell'Ops lanciata da Mps, una delle ultime vestigia. Un'epoca in cui le azioni si pesavano e non si contavano, come amava dire Enrico Cuccia. Ecco, in via Filodrammatici, poi ribattezzata Piazzetta Cuccia in ricordo del banchiere che la rese ciò che è, la pensano ancora allo stesso modo. Per avere un'idea vi basti pensare che Mediobanca è governata da un patto di consultazione che rappresenta circa l'11% del capitale. Certo, in presenza di un azionariato diffuso e molto frammentato può capitare. Ma non è il caso di Piazzetta Cuccia, dove il socio Delfin, la holding che controlla l'impero di Leonardo Del Vecchio lasciato in eredità ai figli, ha circa il 20% del capitale e Francesco Gaetano Caltagirone ne ha poco meno dell'8%. È possibile non contanre nulla in un'azienda di cui possiedi quasi il 30% del capitale e sei di fatto l'azionista di maggioranza? Nella vecchia finanza italiana sì. È così che funziona nei salotti buoni, dove le azioni si pesano e, se occorre, si possono anche prendere in prestito. Esattamente come ha fatto Mediobanca nel 2021 per mantenere il controllo di Generali. Vi ricordate chi c'era d'altra parte a duellare? Sempre Delfin e Caltagirone, che insieme erano arrivati a circa il 13% del capitale, più o meno la stessa quota detenuta da Piazzetta Cuccia. Una vicenda che è tornata a fare capolino proprio in questi giorni. Non tanto perché in primavera sarà di nuovo il momento di convocare l'assemblea del Leone per scegliere i nuovi vertici, quanto perché il ceo scelto da Mediobanca, Philippe Donnet, ha deciso a pochi mesi dalla scadenza di siglare un accordo con i francesi di Natixis, contro il parere contrario di Delfin e Caltagirone, che rischia di consegnare circa 650 miliardi di risparmi degli italiani nelle mani dei francesi. Operazione che non ha suscitato le perplessità solo dei due soci privati, ma anche del collegio dei sindaci di Generali e dell'intero arco parlamentare, da Fdi ad Avs. Oggi leggerete raffinate analisi che vi spiegheranno che il tentativo di scalata di Mps, di cui il Tesoro è ancora azionista all'11% dopo aver rilanciato una banca che fino a due anni fa era data quasi per morta, è una sorta di rappresaglia del governo dopo l'Opa di Unicredit su Banco Bpm, che ha messo a rischio l'obiettivo di creare un terzo polo bancario. Altri, con più capacità di immaginazione, vi diranno che Delfin e Caltagirone, a cui Via XX Settembre ha venduto quote di Mps nel corso dell'ultimo collocamento di azioni sul mercato, sono i giannizzeri dell'esecutivo, che nella sua bramosia di potere vuole mettere le mani sulle roccaforti storiche della finanza italiana, Mediobanca e Generali. La realtà è più semplice. Da una parte c'è sicuramente l'interesse del governo a rendere più competitivo il sistema bancario italiano e a tutelare il risparmio, come del resto previsto dalla Costituzione. «Lo Stato non deve fare il banchiere», ha detto ieri il ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti, «abbiamo risanato il Monte dei Paschi di Siena. E il governo ha dato fiducia al managment che ha realizzato risultati eccezionali, che ha un disegno e ha fatto una proposta di mercato. Se il mercato risponderà saremo contenti, se non risponderà ne prenderemo atto». Ma dall'altra c'è la voglia di due grandi gruppi industriali, quello di Caltagirone e quello di Luxottica, di aprire una nuova stagione. Una stagione dove le azioni si tornino a contare, le banche siano al servizio dell'economia reale e gli imprenditori siano riammessi in quei salotti dove un tempo i Pirelli, gli Agnelli e i Falck davano lustro al capitalismo italiano.
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